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Memoria di San Francesco di Sales

  • Omelia alla S. Messa con i giornalisti
  • S.E. mons. Marco Cè, patriarca di Venezia
  • Venezia
  • Cappella del Patriarchio
  • 24-01-1979
  • 1979

Carissimi amici,

1. Sono lieto della felice circostanza della festa di S. Francesco di Sales, patrono dei giornalisti, che mi consente di incontrare voi operatori della stampa all’inizio del mio servizio patriarcale a Venezia.

E vi ringrazio sinceramente dell’attenzione prestata alla mia venuta in questa città. Avete fatto un pregevole servizio alla Comunità che è stata informata circa un avvenimento che non poteva non interessarla. Ma avete fatto anche un servizio alla Comunità ecclesiale, in un momento non certo irrilevante della sua storia. 

 

2. In questa celebrazione eucaristica io vorrei ricambiare la vostra benevolenza, pregando per voi e per le vostre famiglie, come vorrei pregare per i vostri colleghi defunti. In particolare vorrei ricordare una persona che ha prestato molta attenzione al vostro lavoro e che certamente è nel cuore di tutti: il nostro Patriarca Luciani, assunto, per troppo breve tempo, al servizio pontificale col nome di Giovanni Paolo I e poi subito tornato alla casa del Padre. 

 

3. E ora non vi stupirete se io, invece di svolgere una considerazione spirituale o deontologica sul vostro servizio e sulle qualità che devono accompagnarlo, mi accingo invece a spiegare le Sante Scritture. È questo un preciso dovere del vescovo: sempre e, in particolare, quando celebra l’Eucaristia.

In questo modo io vorrei anche offrirvi una chiave di lettura del mio ministero: già da me dichiarata, ma che ora vorrei riaffermare. Così facendo, mi rendo conto della difficoltà che rappresenta per voi il dovervi confrontare con tale immagine di vescovo. Il pubblico a cui voi vi rivolgete e le vostre stesse redazioni vi chiedono qualcosa di più sensazionale che abbia un valore «pubblicistico» più immediato e mordente, lo so di deludervi. Il mio «pormi» non ha rilevanza per la cronaca. Io sono solo un evangelizzatore; io ambirei di essere solo un «mistagogo» che si pone con forza davanti al suo popolo e lo precede e lo guida sulla strada della sequela di Cristo: una comunità cristiana non è un movimento di opinione, ma una scuola di discepolato.
La forza di un vescovo è il Vangelo: «Il tuo bastone e il tuo vincastro mi danno sicurezza» (Sal 21,4). Il bastone su cui si appoggia un vescovo e il vincastro con cui guida, è la Parola di Dio. E anche quello che nella vita di un vescovo fa cronaca – le sue visite e i suoi impegni – dovrebbe poter essere letto in chiave evangelica, come sequela di Cristo e testimonianza alla sua Parola.

Un vescovo deve «riscrivere» il Vangelo nel suo tempo con l’inchiostro della vita della sua comunità.

Magari così fosse anche per me!

Sarebbe gran cosa! Non è vento – lo sapete – il Vangelo: mette in moto energie capaci di penetrare la storia e di fare veramente nuove tutte le cose.

Basterebbe pensare alla novità sconvolgente della prassi storica della primitiva comunità cristiana, dalla quale l’Impero Romano dovette difendersi nel tentativo lucido di eliminarla, consapevole che avrebbe fatto saltare tutti gli equilibri di allora.

D’altro conto, sono anche convinto che la vita di un vescovo è, senza confronto, più facile a leggersi della vicenda di qualsiasi altro personaggio. Guai se i suoi gesti non fossero ovvi e trasparenti; guai se fossero troppo bisognosi di complicate esegesi. 

 

4. Ma ritorniamo alla pagina del Vangelo di oggi che ci presenta Gesù come Maestro. Anzi il Maestro.

La gente se lo beveva. Povera gente. Spesso straccioni. Quasi sempre ammalati. Smarriti e disperati nel corpo e nello spirito. Come noi. Lo seguiva. Lo voleva ascoltare perché diceva parole nuove. Non come gli altri. Al punto che Lui doveva difendersi dalla gente che lo schiacciava.

È vicino al mare e solo sulla sua barca. E parla di là, alla gente che fa ressa sulla riva. E parla in parabole.

Perché parla in parabole? Gesù sa che diversi sono i suoi ascoltatori; non tutti uguali.

C’è chi ha fame e sete, muore di fame e di sete della verità. «Ma cos’è la verità». diceva Pilato, cos’è?... C’è gente che non sa dire cosa sia, ma ne ha l’istinto, la sente, la fiuta. Questi ascoltano Gesù.

C’è chi ha fame e sete, muore di fame e di sete della salvezza. La salvezza! Parola misteriosa, Io ho fame e sete di salvezza. Non me la so dare. Lo cerco. Questi che hanno fame e sete di salvezza, capiscono le parole di Gesù, il linguaggio delle parabole.

Ma ci sono anche quelli che ormai sanno tutto: che non hanno bisogno di salvezza perché sono sazi. A loro le parabole fanno solo ridere. E Gesù parla in parabole perché costoro guardino ma non vedano: ascoltino ma non intendano.

Gesù, il Maestro, parla e narra la parabola del seminatore. Il seminatore è Lui, mandato dal Padre proprio per questo: ad annunziare la Parola. Il seme è la sua Parola, che è la Parola del Padre. E questa sua parola – accolta o rifiutata in terreni diversi – decide il destino degli uomini e divide i destini degli uomini. Di tutti gli uomini, nessuno escluso. Perché tutti – misteriosamente e per mille strade diverse – si incontrano e devono confrontarsi con la Parola di Dio. 

 

5. La Chiesa esiste – e il vescovo nella Chiesa – per rendere testimonianza a questa Parola che divide e decide il destino degli uomini: di tutti gli uomini, nessuno escluso! A questa Parola, che viene rivelata nel suo mistero salvatore agli affamati e agli assetati e fa sorridere i sazi.

Ecco, amici miei, il mio compito e la mia immagine di vescovo: un seminatore della Parola. Un vescovo non è per delle cose che siano significative per la cronaca, neanche per i vostri giornali. Chi si è accorto di Gesù? Chi ha registrato la sua vicenda, fuori della Chiesa dei credenti?

Di Lui la cronaca del suo tempo conserva, sì, sicure tracce, ma poco più.

lo sono per rendere testimonianza al Vangelo. Io sono la mano con cui il Seminatore getta ancor oggi la Parola. E parte cade in un terreno buono e parte cade in un terreno… non buono. E non cresce. 

 

6. Certo: il vescovo e il suo ministero di seminatore non esaurisce il fatto cristiano. Io so che annunziando la Parola, non solo convoco la comunità cristiana, ma metto in moto una storia: attivo i carismi, i doni delle persone; mobilito le mediazioni storiche, che non adeguano mai la Parola di Dio, ma la incarnano, la concretizzano, la testimoniano. Mentre ne sono trascese e giudicate.

Quante volte in questa settimana mi sono sentito dire: occorre fare questo e quest’altro. Ma io non voglio fare tutto. Non voglio. Non posso: non ne ho il dono né la competenza. Non debbo. Il vescovo predica, raccoglie la comunità dispersa intorno alla Parola, alla Eucaristia, alla carità.

Il vescovo guida e giudica secondo la Parola. E infonde così una corrente escatologica nella storia. La verità ci farà liberi; ci farà pienamente «uomini» capaci di agire secondo il dono ricevuto e secondo l’Amore.

Questo crea una storia nuova, finalmente fatta di persone responsabili.

Il vescovo non è il leader di un movimento ideologico che cattura e aggrega il consenso, ma il «mistagogo» di un popolo in cammino, alla sequela di Cristo. Di un popolo che, camminando nella storia fermentata dalla Parola, annunzia il Regno e, nell’amore, profeticamente lo anticipa. 

 

7. Così, amici miei, io vorrei essere nella mia Chiesa e per la mia Chiesa. Uno solo è il Maestro: Gesù di Nazareth. Io sono l’apostolo. Colui del quale Lui ha detto: «Come il Padre ha mandato me, io mando voi».

Per chi? Per gli altri, per gli uomini, per il mondo. Per chi crede e per chi non crede. Per la gente di cui parlava l’inizio del Vangelo di oggi.

Ecco il vescovo: relativo a Gesù di Nazareth, a Cristo, e relativo agli uomini.

Nella Chiesa, per l’attualizzazione, per essere segno di Gesù a Nazareth, del Cristo, il Risorto glorioso.

Perché anche la Chiesa sia per gli uomini. Per tutti gli uomini. Per la vita degli uomini, di chi crede e di chi non crede. Segno di Cristo per la salvezza dell’uomo. 

 

8. Cari amici, vi ho consegnata la parte migliore di me stesso. Se condividete un po’ la mia passione, pregate per me, perché, almeno come costante tensione spirituale, con tutti i miei limiti, io possa essere così.

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    • Scarica il pdf, RDPV (1979) 1,125-127
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Stemma cardinale Marco Cè

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