Lettera ai nuovi parroci, a quelli che sono stati trasferiti ad altra parrocchia, a tutto il presbiterio
- S.E. Marco card. Cè, patriarca di Venezia
- Venezia
- 06-08-1989
- 1989
Carissimi,
pensando che nei dieci anni del mio servizio pastorale a Venezia due terzi delle comunità hanno visto avvicendarsi il loro parroco, ho pensato fosse giunto il momento di mettere in comune alcune considerazioni e suggerimenti pratici: almeno qualche cosa dell’esperienza che sono andato maturando in tante situazioni. Cose umili, che spero possano servire.
1. Partirò da un riferimento evangelico. Per esprimere il servizio pastorale Gesù usava l’immagine del pastore, del pescatore, del seminatore e del vignaiolo ecc., traendole dal suo ambiente di vita. Per una diocesi lagunare, com’è la nostra, è d’obbligo l’immagine del pescatore. Penso a quello che fa la cernita dei suoi pesci, mettendone alcuni da una parte, altri dall’altra (Mt 13,47.50). Gesù ne fa la parabola dell’ultimo giudizio; io, con le cose che dirò, mi colloco a un livello ben più modesto: tenendo lo sguardo fisso su Gesù, «autore e perfezionatore della fede» (Eb 12,12), vorrei fare la cernita di alcune attenzioni e avvertimenti che possono giovare a un parroco, che arrivi nuovo in parrocchia. Mi preoccuperò, non tanto della completezza delle cose da dire – molte, le più importanti, sono presentissime a tutti – quanto dell’opportunità e, talora, dell’urgenza di averle presenti fin dall’inizio del ministero.
Quindi non butto via «i pesci» che non scelgo: prendo ciò che mi sembra utile nell’immediato, senza pregiudizio per il resto.
I – La vita di Gesù è tutta un «esodo», come quella dei padri (Eb 11)
2. Riferisce Matteo, all’inizio del capitolo delle parabole, che Gesù «uscì di casa» e sedette in riva al mare (Mt 13,1). Spesso il Maestro definisce la sua vita come un’uscita, un «esodo», un continuo «partire», per andare dove Dio gli mostrerà (cf. Mt 1, 28[1]). Il suo «sedersi in riva al mare» è segno della provvisorietà e precarietà che hanno accompagnato la sua vita (Mt 8,20), tutta consegnata alla volontà del Padre (cf. Gv 8,29; Lc 23,46).
Anche per noi «la missione» ricevuta dal Vescovo – che ci fa «mandati» e «servi»: «va’» e noi andiamo, «vieni» e noi veniamo (cf. Mt 8,9) – è il motivo ultimo che ci deve sostenere nell’affrontare un nuovo compito ed è capace di darci la pace. In forza dell’imposizione delle mani siamo stati aggregati a un presbiterio, intorno a un Vescovo, contribuendo, nella comunione gerarchica, ad attuare la sua missione pastorale sulla porzione di Chiesa che gli è stata assegnata: perché la governi, come segno o ministro dell’autorità di Cristo. L’obbedienza al Vescovo e la comunione con lui sono la nostra pace e, fondamentalmente, la radice dell’essere parroci.
3. Certamente il Vescovo, anche quando deve affidare nuovi compiti, deve essere aiutato a capire le singole persone e a valutare la prudenza dei suoi provvedimenti nel quadro dei bisogni della Diocesi. Se però di fronte alla decisione del Vescovo noi non sapremo andare al di là delle «cause seconde» e non sapremo cogliere la volontà di Dio in ciò che ci è stato significato, dove troveremo un riferimento di fede e la pace del cuore?
4. Senza obbedienza al Vescovo non c’è Chiesa; senza docilità non c’è vita spirituale; senza intelligenza di fede, che sappia cogliere la mano provvida che guida sempre la storia e la vita dei figli di Dio, c’è soltanto turbamento, amarezza e quel triste accumulo di frustrazioni che spesso rende lo stesso temperamento difficile, quando non addirittura inagibile: quante belle possibilità di servizio, si perdono a causa delle frustrazioni! Mentre se si mantiene lo spirito libero, presto o tardi, anche i nodi malfatti si scioglieranno. C’è il Signore nella Chiesa.
Bisogna pregare molto per il Vescovo e per coloro i quali, per volontà della Chiesa, devono consigliarlo, perché siano docili all’azione dello Spirito. L’autorità nella Chiesa si radica nell’obbedienza all’Unico che ha autorità: Cristo, il Signore (Fil 2,9-11).
5. Quanto al cambiare o meno, se il Vescovo ce lo chiede, dette le nostre eventuali considerazioni in contrario, accettiamo volentieri. Per tante ragioni; non ultima quella di lasciarsi dietro le spalle i nostri sbagli e quelle incrostazioni e grovigli di malessere, di urti e incomprensioni, che sono inevitabili nella vita di ogni persona di governo: anche se non sono affatto colpevoli. Spesso un cambiamento diventa – lo si capisce dopo – una liberazione. E uno ricomincia da capo. Mentre sullo stesso posto – non fosse altro per non perdere la faccia – è difficile cambiare: siamo umani e sappiamo capire la debolezza che tutti ci portiamo dentro e talora ci rende ciechi e ostinati, in buona fede.
6. Mi fa sempre impressione la forza della fede con cui Giuseppe, facendosi riconoscere dai fratelli che l’avevano venduto, legge in chiave provvidenziale tutta la vicenda tortuosa che ha finito per portarlo in Egitto, a capo del paese: «Io sono Giuseppe, vostro fratello, che voi avete venduto per l’Egitto. Ma ora non vi rattristate e non vi crucciate per avermi venduto quaggiù, perché Dio mi ha mandato qui prima di voi per conservarvi in vita» (Gen 45,5).
II – «Il seminatore uscì a seminare» (Mt 13,3)
7. Per tutta la storia della Chiesa, sino alla fine del mondo, «il seminatore» non siamo noi, ma la Parola fatta carne: Gesù il Signore (cf. Gv 1,14). E Lui è anche «il seme» che viene gettato nella zolla, un seme che contiene la vita (Lc 8,11).
Questo ci ammonisce che noi non siamo al centro né della parrocchia, né della pastorale: al centro c’è il Signore. Noi – il Vescovo e, con lui, il presbiterio – apparteniamo all’ordine dei segni: segni sacramentali, e perciò efficaci.
Questo ci svela la nostra grandezza, ma anche ci consiglia umiltà e mitezza.
8. Andando in una parrocchia, il primo atteggiamento da assumere è quello del rispetto. San Paolo ci consiglierebbe: «considerate gli altri superiori a voi stessi» (Fil 2,4).
Generalmente si va in situazioni dove esistono già una comunità e un discorso pastorale avviato: sono opera di Dio e frutto dello Spirito. Non che tutto vada necessariamente assunto; tutto però deve essere valutato con grande rispetto e sforzo di comprensione.
Il presbitero è essenziale alla pienezza della comunità, in quanto rende operativamente presente il Vescovo; ma non è tutto. Egli è certamente un «formatore» della comunità – con la predicazione della Parola di Dio, la celebrazione dell’Eucaristia e della Riconciliazione, con la guida pastorale – ma deve anche rendersi docile ai doni dello Spirito che Dio, prima che lui arrivasse, ha già effuso in quella comunità. Le singole storie vanno capite e assunte con amore, anche per poterle poi eventualmente correggere: cogliendo tutto ciò che c’è di buono, per valorizzarlo e farlo crescere.
La comunità va sollecitata a camminare sulle strade indicate dalla Chiesa; mai dimenticando che prima di imporre cambiamenti di prassi, occorre «convertire» i cuori, aprendoli a una mentalità nuova. Diversamente i cambiamenti saranno sentiti come una imposizione o, peggio, una prevaricazione del nuovo arrivato.
Il rispetto per chi ha lavorato prima di noi e per la comunità – le sue tradizioni e la sua buona fede – è anche questione di prudenza e di buon gusto. Ricordiamoci dell’ammonimento rivolto dall’apostolo Pietro proprio ai presbiteri: «Non spadroneggiate sulle persone, ma fatevi modelli del gregge» (1Pt 5,3).
Quanti errori, quante amarezze nella gente e fra confratelli, quante partenze col piede sbagliato si eviterebbero se fossimo un po’ meno protagonisti e un po’ più umili e prudenti.
Mettiamoci anche in questo alla scuola di Gesù e della sua grande pazienza. Noi, al suo posto, in tre anni di ministero, avremmo messo in piedi una comunità ben più efficiente. Lui invece, paziente e mite, è riuscito appena ad abbozzare il futuro nelle linee essenziali, con la povera gente che aveva alla mano. Imitiamone la delicatezza con tutti e la pazienza (Mt 11,28-30).
9. Ne ho già parlato, ma ci ritorno sopra: Una volta lasciato un posto, lasciamo campo libero al nostro successore. Non c’è dubbio: la responsabilità è sua; e sua anche la grazia che Dio non lascia mancare quando affida una missione. Non ci sfiori la presunzione di essere «necessari». Se il successore ci domanda consiglio e informazioni – ed è saggezza farlo – diciamogli tutto quanto serve; se ci chiede aiuto, diamolo volentieri. Al di là di questo siamo decisi nel tagliare. Non diamo adito a pellegrinaggi o ai «muri del pianto»; né siamo troppo facili a giustificare «la parrocchia di elezione», scambiando, forse senza avvedercene, la libertà cristiana con quelle sottili manipolazioni delle persone o leadership che, a ben rifletterci, hanno ben poco di spirituale. Abbiamo la sapienza di Noemi che disse alle sue nuore: «Tornate a casa vostra», rifiutandosi di farne delle eterne vedove (Rut 1,8ss).
E se la carità ci convince a mantenere qualche legame per la confessione o la direzione spirituale – cosa che risponde a quella libertà di coscienza che deve essere gelosamente salvaguardata – ricordiamoci che dobbiamo essere altrettanto rigorosi nel lasciare le persone inserite nell’attività della loro parrocchia a collaborare col nuovo pastore. Pur facendo credito alle doverose eccezioni, questo sarebbe un indice altamente positivo circa l’autenticità dei nostri rapporti spirituali. Sempre guardandoci dal mescolare i consigli spirituali con quelli di carattere pastorale. Il «discernimento» sulle cose da fare in parrocchia non è del confessore o del direttore spirituale, ma del Vescovo e del parroco.
III – La comunione col Vescovo vi fa segni di Cristo
10. La giornata apostolica di Gesù di cui parla Matteo al cap. 13 vede tanta gente intorno a lui. Alcuni però gli stanno più vicini: loro ricevono da Gesù le spiegazioni della Parola, che poi trasmettono agli altri (cf. Mt da 10 a 23).
Questo fatto proclama la «centralità» di Gesù nell’opera della salvezza ed anche la «sacramentalità» della Chiesa, come «regola divina» per attualizzarla. Gesù, che è «l’unico» ed è «il Signore», sceglie di agire attraverso gli apostoli e i discepoli: Lui, che è tutto, porta a compimento la sua opera di salvezza mediante la Chiesa, suo corpo e sacramento.
11. Nella comunità che vi è stata affidata – in forza del Sacramento dell’Ordine e del «mandato» ricevuto – voi rendete presente il Vescovo, segno di Cristo. «Nella persona dei vescovi, ai quali assistono i presbiteri, è presente in mezzo ai credenti il Signore Gesù Cristo» (LG n. 21).
Ricordiamo e andiamo a rileggere le belle lettere di Ignazio di Antiochia, sulla strada del suo martirio, quando ormai sapeva di avere solo poco tempo per poche cose vere… per comprendere cosa significava la comunione col Vescovo nelle Chiese dei primi decenni del secondo secolo.
12. Questo che cosa comporta?
a) La comunione pastorale col Vescovo è essenziale per la parrocchia. Il parroco non è «vescovo» della sua parrocchia, ma «segno» del Vescovo e di una comunione più grande, che è vitale per la parrocchia stessa.
Certo il parroco non è un robot telecomandato, bensì un presbitero responsabile, che dal «mandato» del Vescovo è stato posto per attuare e «calibrare» in quella precisa comunità le linee pastorali indicate per tutti dal discernimento autentico del Pastore: adattandole e commisurandole sui ritmi e le esigenze delle singole comunità. E qui c’è spazio per le doti e l’inventiva personale e per le singolarità – ricchezze e povertà – delle parrocchie. Consapevoli che ogni prete e ogni parrocchia, con i propri carismi, sono grazia da valorizzare, non da spegnere. Tutto questo però nel contesto vitale della «comunione», e non come una Chiesa a sé.
Bisogna ricordare che il Vescovo non può rinunciare ad essere vescovo di tutta la Diocesi e quindi non può consegnare a nessuno la parrocchia sì che, una volta data la fiducia, uno ne faccia quello che crede. «Non ci sono molti padri» (1Cor 4,15). L’ecclesiologia di comunione come non deresponsabilizza né il Vescovo né il parroco, così non tollera esenzioni. Basti riflettere che l’esenzione pastorale non esiste neanche per i religiosi.
13. b) Accanto, anzi prima ancora, delle norme e delle direttive pastorali del Vescovo, vanno rispettate le leggi della Chiesa universale, alle quali il Vescovo stesso deve attenersi, sempre in forza dell’ecclesiologia di comunione.
Da quelle liturgiche, come il rispetto rigoroso dei testi liturgici, delle preghiere eucaristiche che non possono essere manipolate a volontà, delle formule sacramentali, compresa la formula con cui l’Episcopato Italiano, con l’approvazione dell’Autorità Apostolica Suprema, ha stabilito si debba esprimere il consenso sacramentale dei coniugi nella celebrazione del Matrimonio, ecc.;
a quelle pastorali: p.es. circa la sequenza prima-confessione e prima-comunione e non viceversa; circa l’età della Cresima fissata con legge formale dai Vescovi Italiani, interpretando il Codice e con la sanzione della Suprema Autorità, entro l’età che va dalla 1a alla 3a media; circa l’osservanza rigorosa del riserbo personale nella confessione sacramentale – non parlo ovviamente del segreto inviolabile e grazie a Dio inviolato – per cui non si può ammettere che due coniugi o fidanzati facciano la formale accusa dei peccati alla presenza l’un dell’altro ecc. ecc.
Potrei continuare sulla devoluzione alle necessità della Diocesi delle offerte delle Messe binate ecc. Ma non intendo ripetere il Codice di Diritto Canonico, che ogni parroco ha il dovere di conoscere.
14. E qui consentitemi una lieve malignità: quante volte mi capita di osservare, sorridendo, parroci che «snobbano» le leggi della Chiesa universale e del Vescovo, ignorandole con ostentazione, e poi sono duri nell’esigere dalla gente il rispetto di disposizioni date da loro stessi: le quali, se sono in contrasto con quelle della Chiesa universale o del Vescovo, sono radicalmente illegittime e i parrocchiani avrebbero il dovere di rifiutarle.
L’osservanza fedele e intelligente delle leggi della Chiesa è il primo rispetto dovuto alla gente, la quale ha il diritto di essere trattata non secondo l’arbitrio del singolo prete, ma secondo lo statuto normativo-spirituale di quella Chiesa in cui è entrata in forza del Battesimo.
IV – «Conservate l’unità dello spirito» (Ef 4,4)
15. Sento legato a questo il discorso delle riunioni pastorali del Clero e del Vicariato.
a) Le riunioni pastorali del Clero sono strumento necessario di comunione pastorale del presbiterio col Vescovo e dei sacerdoti fra loro, per la costruzione di una pastorale pensata insieme, elaborata insieme e attuata insieme. Esse appartengono al modo più antico e abituale del far pastorale nella Chiesa: dal raduno dei presbiteri a Mileto, intorno a Paolo (Atti 20,17ss), alle pievi, alle «congreghe» che molti di noi ricordano, fino ai Consigli presbiterali vicariali (cfr. can. 374 § 2).
Come si potrebbe, peraltro, se non «insieme», studiare le mutazioni culturali, i nuovi documenti della Chiesa, per poi tradurli nella prassi, a favore delle nostre comunità?
La pastorale diocesana d’insieme e l’aggiornamento pastorale sono un dovere nei confronti della comunità cristiana: questa ha il diritto a non essere estraniata dal cammino della sua Chiesa e ad essere condotta con una pastorale all’altezza delle situazioni storiche e del magistero ecclesiale.
Io domando come possa un sacerdote, che abbia comunque cura d’anime, rispondere a queste due esigenze – che sono, in realtà, precisi diritti della comunità – estraniandosi dalla vita del Presbiterio e dagli incontri pastorali disposti dal Patriarca proprio per rendere possibile un cammino comune. Tanto più che non abbiamo a disposizione altri mezzi di comunicazione, fuori dei nostri incontri; per cui, chi si estrania, inevitabilmente e al di là delle intenzioni, cammina per la sua strada e non per quella della Diocesi.
16. A questo punto – uscendo dalla rigorosa sequenza dell’argomento, ma condotto da una logica interna – consentitemi un fuggevole ma forte richiamo all’importanza dello studio personale: proprio per il rispetto dovuto a coloro che ci sono affidati, in questa stagione esigente. Uno studio personale che però da solo non basta: è necessario anche che dialoghiamo fra noi e ci confrontiamo per capire le mutazioni: siamo così ricondotti alle riunioni del presbiterio, ai vari livelli.
17. b) La valorizzazione del Vicariato per favorire la comunione fra sacerdoti e per tradurre in atto concretamente una pastorale d’insieme è legge della Chiesa ed è un impegno promozionale del Patriarca fra i più caldeggiati e richiamati.
Non ripeto le cose già dette tante volte circa il servizio di comunione con tutta la nostra Chiesa particolare, di adattamento delle proposte diocesane alle esigenze zonali; circa l’aiuto che le parrocchie più grandi sono in grado di dare alle più piccole, rendendo loro possibili esperienze molto qualificate: corsi per catechisti e per animatori, scuole bibliche, ritiri spirituali, convegni su argomenti specifici ecc., che i Vicariati sono in grado di rendere e che non sarebbero diversamente possibili.
18. Voglio invece richiamare e sottolineare:
— primariamente l’esigenza propria della cultura di oggi (la cultura della comunicazione) che esige incontri più ampi della piccola cerchia abituale di vita. Oggi un giovane, un adulto consapevole si sente un po’ «cosmopolita»; a tutti i livelli: sociale, scolastico, lavorativo, sportivo… incontra altre persone. Perché proprio la vita ecclesiale, teologalmente universale, dovrebbe rinchiuderlo negli angusti limiti della parrocchia; talora – perché non dirlo – pagando il prezzo di clericalismi fuori moda, di protagonismi o di chiusure temperamentali ecc., che nulla hanno da dividere con le ragioni della fede e della pastorale?
— in secondo luogo oggi il coordinamento vicariale è necessario anche per garantire a livello interparrocchiale alcuni essenziali servizi pastorali.
La figura del cappellano unicamente dedito alla parrocchia, dove risiede, va scomparendo. Il suo legame primario e sacramentale col Vescovo e le esigenze della carità verso le parrocchie che sono prive di un secondo sacerdote, lo sottraggono a esclusivizzazioni, oggi non più ammissibili.
Il Vescovo, costretto dalla crescente scarsità del clero, dovrà incaricare sempre più sacerdoti, giovani e non, d’un servizio vicariale o diocesano.
19. Questa prassi deve diventare «sistema» dentro il Vicariato, favorendo la specializzazione dei servizi e il lavoro interparrocchiale. Allora, anche se c’è un solo sacerdote giovane in tutto il vicariato, potrà nascere una pastorale giovanile, con ritiri, esercizi spirituali e scuole di preghiera, corsi formativi per animatori, ecc. e, attraverso il collegamento con il Centro Diocesi e i sussidi che questo fornisce, potrà crescere, con la partecipazione dei collaboratori laici, una vigorosa pastorale giovanile.
Questo vale anche per altri campi, quali la catechesi, l’animazione liturgica, la pastorale familiare, le iniziative caritative, la formazione all’impegno sociale, ecc.
20. È lo stile d’una pastorale missionaria che dilata il cuore e la passione per le anime al di là di ogni confine, per servire dove c’è il bisogno e favorisce la crescita dei laici responsabili.
Queste cose io sono andato scrivendo e ripetendo fin dagli inizi del mio ministero, come una delle linee strutturali del mio servizio di comunione ecclesiale e pastorale. Le visite annuali ai Vicariati, in particolare ai sacerdoti, e quest’anno soprattutto ai giovani, hanno proprio questo scopo prevalente: animare i vicariati. «Chi ha orecchie per intendere, intenda…». Almeno non si dica che non sono note le linee del Vescovo.
V – Far crescere persone e gruppi secondo il progetto di Dio
21. Promuovete le responsabilità dei laici: a questo ci chiama l’oggi della Chiesa. Così sentirono anche gli Apostoli e la Chiesa primitiva: basta leggere gli Atti degli Apostoli e le loro lettere.
Se è vero – come è vero – che l’urgenza pastorale prioritaria è «la nuova evangelizzazione», sarebbe utopia ipotizzarla senza la piena attivazione e valorizzazione della corresponsabilità battesimale dei laici nei confronti del Vangelo e della Chiesa. Quel mondo, che noi diciamo sempre più scristianizzato, è la loro casa; essi lo abitano, vi lavorano, lo costruiscono giorno per giorno, lo possono costruire in un modo o in un altro; essi, che sono «corpo di Cristo» e luogo reale della presenza attiva del Risorto, abitati come sono dal suo Spirito!
22. Ma qui bisogna essere lucidi e leali. Il battezzato laico è persona animata e resa capace di responsabilità ecclesiali, non da noi, ma dallo Spirito del Signore. Certo in comunione gerarchica col Vescovo, segno di Cristo, e coi presbiteri, che formano una cosa sola con lui.
Questo però esige che con rigore si eviti ogni nostra prevaricazione, anche solo intellettuale, sui laici, ogni manipolazione e soggezione, anche affettiva; sforzandoci di far crescere la loro libertà e maturità di giudizio.
Non basta quindi l’addestramento operativo o il coinvolgimento organizzativo; è necessaria la formazione della persona alle libere scelte e alla responsabilità personale, secondo tutte le dimensioni umane e soprannaturali.
Solo la formazione – che fa crescere il cristiano laico e lo rende capace di porsi liberamente di fronte a Dio e di servire responsabilmente la sua Chiesa, in collaborazione con i fratelli, col Vescovo e i suoi presbiteri – è degna della persona, come Dio l’ha voluta e rispetta lo statuto del cristiano nella Chiesa.
23. Parlando di formazione dei laici ritengo doveroso fare almeno un cenno alle iniziative formative diocesane promosse dai vari Uffici (Catechistico, della Famiglia, della Caritas, della Liturgia, ecc.) e dalle Scuole Diocesane: da quella Biblica, a quella Teologica di Mestre, al Centro Pattaro e a quella Pastorale. È uno sforzo immenso messo in atto dalla Diocesi; tali iniziative coinvolgono decine di sacerdoti e di laici e sono frequentate da centinaia di persone in tutte le zone della nostra Chiesa. È una massa di lavoro – una grazia di Dio! – che deve essere maggiormente valorizzata.
Convinti che senza uno sforzo di qualificazione culturale il laicato non sarà mai promosso.
È anche questione di responsabilità nei confronti della Chiesa e del futuro delle nostre comunità: se è vero che dobbiamo curare tutti – anche e soprattutto i più poveri e i meno dotati – sarebbe grave colpa nei confronti delle persone e della Chiesa se, più o meno consapevolmente, trascurassimo la crescita di chi ha doti e carismi per essere qualificato. Né illudiamoci – sarebbe presunzione – che le parrocchie possano farlo da sole.
I corsi diocesani e le Scuole non fanno concorrenza a nessuno: esistono semplicemente per aiutare.
24. Per la stessa ragione non si può dare vita al Consiglio Pastorale parrocchiale, a norma degli statuti dati dalla Diocesi (cf. CJC can. 536, § 1) e al Consiglio di Amministrazione, che è obbligatorio e va valorizzato nelle sue prerogative (cf. CJC can. 537).
Essi non esauriscono la partecipazione dei laici alla vita della Chiesa; in particolare non sono, se non parzialmente, luoghi formativi: sono momenti operativi e di consiglio; ma sono concrete espressioni di partecipazione laicale, volute dalla Chiesa.
È necessario avere dei collaboratori; anzi, valorizziamo quante più persone possiamo: ricordando però che la partecipazione dei battezzati alla vita e missione della Chiesa non è primariamente funzionale alle cose da fare, ma è attivazione della santità battesimale e dei doni propri della persona; è quindi da promuoversi, perché Dio ama ogni persona, anche la più piccola, adornandola di carismi: per la edificazione comune.
25. Va detto che anche i collaboratori della Parrocchia devono essere, come chiunque esercita un ministero nella Chiesa, un gruppo di servizio, a imitazione di Gesù, venuto «non ad essere servito ma a servire» (Mt 20,28; cf. anche Gv 13,1-20). Anche loro quindi devono guardarsi dalla tentazione del dominio, sia nei confronti di chi presiede, come della comunità. A Corinto questo rispetto dei carismi di ciascuno non veniva osservato e Paolo intervenne con energia e grande sapienza cristiana (1Cor 12,14).
Anche in parrocchia «tutto avvenga decorosamente e con ordine» (1Cor 14,40): se si tratta del giudizio di idoneità circa coloro che chiedono i sacramenti, è evidente che l’ultimo discernimento spetta al parroco, doverosamente sentiti i catechisti; se si tratta di decisioni relative a feste, iniziative varie di promozionalità umane, non potrà essere disatteso il Consiglio Pastorale a vantaggio di realtà che non sono pastorali: non per escludere queste ultime, che talora hanno un forte valore umano, ma perché anche il Consiglio Pastorale abbia la parte che gli spetta.
Per quanto infine riguarda i Sacramenti, tutti dobbiamo obbedire alle leggi della Chiesa: non sono né il Parroco, né i Catechisti, né il Consiglio Pastorale ecc. il riferimento ultimo. Ciò che è bene di tutta la Chiesa è regolato da chi ha autorità su tutta la Chiesa, particolare o universale.
26. Lasciatemi dire un’ultima cosa, con discrezione e mitezza, ma anche con «parresia». I collaboratori non vanno scelti a propria immagine e somiglianza al fine di farne dei semplici esecutori che «non piantano grane»: quando c’è una maturità di giudizio, sensata ed ecclesiale, essa non va emarginata, perché non sempre allineata e talora scomoda, ma valorizzata.
È il difficile cammino di una Chiesa adulta: difficile fin dai tempi apostolici. Ma è l’unica strada segnata dal Signore, a cui tutti dobbiamo obbedire: quel Signore che effonde doni molteplici nella Chiesa. Richiede molta umiltà da parte nostra, larga paternità e docile discernimento; richiede nei fratelli e nelle sorelle laici fede, preghiera e, anche in loro, umile e docile discernimento e riconoscimento dei doni di Dio; primi fra tutto, dei doni del Vescovo e del presbitero.
27. Sempre parlando dei laici, vi esorto a cautelarvi dal rinchiudervi nel gruppetto, comunque esso sia. Il presbitero, in quanto segno del Vescovo, padre della comunità, non può appartenere con esclusività a nessun gruppo. Come Gesù, è a servizio di tutti.
La parrocchia è gelosa della «libertà» dei suoi presbiteri e ciascuno – persona o gruppo – esige di essere amato ed aiutato a crescere secondo il particolare progetto di Dio su di lui.
Questa libertà non spersonalizza i rapporti, ma li rende ecclesialmente corretti e, alla fine, crea un calore più sano anche a livello affettivo.
28. Arrivando nuovi in una parrocchia nuova non lasciatevi catturare da nessuno. Accogliete tutti con bontà, ma non tollerate informatori troppo zelanti, di cui non avete bisogno.
Stroncate il pettegolezzo. Le lettere anonime non abbiano mai il diritto di toccarvi: sono l’arma di offesa più sleale e più tenebrosa che esista. Qualunque cosa esse dicano di voi, non doletevene più del tempo che si impiega a smaltire il dolore di uno schiaffo vigliacco. E non permettete mai – assolutamente mai – che possano toccare il vostro giudizio su altre persone.
Merita fede solo chi presenta la propria faccia, non chi colpisce e nasconde la mano.
29. A poco a poco conoscerete voi stessi le persone e le situazioni. Non abbiate fretta. Non giudicate. Sappiate temporeggiare. È meglio sbagliare per eccesso di prudenza, che giudicare male una persona o fraintendere una situazione. Gli stessi Consigli Pastorale e di Amministrazione, non vanno costituiti il giorno dopo il vostro arrivo, ma solo in seguito ad una prudente ponderazione.
VI – «Abbiate cura dei deboli…» (Mt 10,8)
30. Arrivati in parrocchia, e sistemate le prime pochissime cose essenziali, dedicate immediatamente qualche ora al giorno alla visita agli ammalati e agli anziani soli e rendetevi personalmente conto delle situazioni di povertà che ci sono in parrocchia.
Tutto può aspettare. La vita ordinaria – la Catechesi, il programma domenicale, ecc. – non inizia con voi e non può dipendere solo da voi: è prudente e saggio che, almeno per un anno, tutto continui come prima.
Gli ammalati, gli anziani soli, coloro che sono nel bisogno non possono aspettare: hanno il diritto alla vostra prima attenzione. Diventa esemplare anche per la parrocchia che viene così educata ad un autentico spirito evangelico. Di Gesù, Pietro ricorda che «passò facendo del bene e guarendo coloro che soffrivano sotto il potere del diavolo» (Atti 10,38).
31. Verificate se nella vostra nuova parrocchia c’è il gruppo della Caritas – e se non esistesse ancora, fatevi premura di attivarlo – accanto e non mai disgiungibile dal gruppo dei catechisti e degli animatori della liturgia. Non è questione di «organigramma», ma di identità evangelica d’una comunità dei discepoli del Signore.
32. Ritengo poi che un parroco diventi vero pastore d’una comunità via via che fa la visita alle famiglie: «il buon pastore conosce le sue pecorelle ed esse conoscono lui» (Gv 10,14). Conosce loro, la loro casa, le loro situazioni talora disastrate, le loro pene…
Se aspettate troppo a iniziare la visita, sarete sovrastati da tante cose tutte necessarie, e non la farete più. Dedicatevi più anni, scegliete il ritmo più opportuno, ma non rassegnatevi a rinunciarvi. Il «buon pastore» passa porta per porta, bussa, se non gli aprono se ne va pregando: ma non si è parroci, se non si va a cercare la gente.
Datevi dei tempi lunghi nella pastorale – probabilmente dopo di voi ci sarà un altro parroco… – suscitate dei responsabili laici di settore e aiutateli a crescere; ma non rinunciate alla vostra immagine «pastorale», fatta di conoscenza (Gv 10,14), accompagnamento (Lc 24,15ss) e mitezza (Mt 11,29), e a dare alla parrocchia il volto dell’amore (Gv 13,35).
33. Via via che entrerete nella conoscenza della nuova comunità, vi si evidenzieranno tante situazioni moralmente difficili: matrimoni civili, vincoli coniugali infranti, divorziati risposati, unioni di fatto, ecc. ecc.
Con tutti siate accoglienti (cf. Mt 9,9-13; 1Tm 1,15). Certo dobbiamo essere sempre leali nei confronti dell’insegnamento della Chiesa: il Vangelo è una strada stretta, ma anche l’unica oggettivamente vera, che indica la direzione della salvezza. La verità è un diritto della persona e del battezzato. Però abbiate sempre un grande cuore; fate vostre la misericordia di Gesù e una premurosa disponibilità di accompagnamento (Lc 10,34). I fratelli, che hanno sbagliato e sono in situazioni difficili, sono sempre membri della Chiesa; vanno aiutati a pregare, a osservare i comandamenti del Signore, a vivere la solidarietà nell’amore e nelle opere di bene… In una parola, a camminare verso la pienezza della vita. Forse, camminando, troveranno anche la grazia della forza e della luce.
Una cosa è certa: che Dio Padre in Cristo Crocifisso li ama, li chiama, li vuole salvi (cf. Gv 3,15).
VII – «Spingili a entrare, perché la mia casa si riempia» (Lc 14,23)
34. Particolarmente il sabato pomeriggio e, per quanto è possibile la domenica, siate disponibili per il Sacramento della Penitenza: fra le tante cose che urgerebbero, date la priorità a questo Sacramento, anche se per mesi e mesi dovrete aspettare invano.
Se noi siamo convinti dell’importanza della Riconciliazione sacramentale, e offriremo frequenti e agibili possibilità di confessarsi, se valorizzeremo a pieno la ricchezza di proposte della riforma liturgica, le comunità ritorneranno a questa fonte di grazia. L’esperienza, anche nella nostra Diocesi, lo insegna.
La riforma liturgica conciliare raccomanda la celebrazione comunitaria del Sacramento della Riconciliazione, culminante nell’assoluzione dei peccati accordata ai singoli penitenti: sia per il senso teologale di tale celebrazione, come per la sua carica pedagogica. Non intende però in nessun modo scoraggiare la Confessione individuale, anche frequente. Le comunità ne hanno il diritto, e il Vescovo, che è «amministratore» della grazia del perdono, questo diritto lo riconosce loro e ne fa un dovere grave per i presbiteri. Un dovere «grave», perché primario è nei fedeli il diritto a ricevere il perdono, se si hanno le dovute disposizioni.
35. Per il sacramento della Riconciliazione e Penitenza, come del resto per la celebrazione quotidiana dell’Eucaristia, che è doverosa per ogni parrocchia, è specioso – anzi è ambiguo – il ricorso alle antiche prassi, per avallare comportamenti difformi dalle direttive della Chiesa di oggi.
La prassi sacramentale della Chiesa di oggi è «generalmente» migliore di quella della comunità cristiana dei primi secoli. La Chiesa cresce nella comprensione del «depositum fidei» e dei doni ricevuti: cresce predicando e ascoltando la Parola di Dio, rendendosi docile allo Spirito che la guida, nella storia, alla comprensione della verità tutta intera, sotto la guida del Magistero e nella fedeltà santa del battezzati, ricchi di Spirito Santo e di sensus fidei: pur ammettendo anche tutti i suoi peccati e le sue involuzioni, che giustificano l’esortazione conciliare alla continua conversione (cf. LG n. 8).
Non è corretto irridere le argomentazioni dei fratelli «tradizionalisti» e poi usarle noi stessi, anche se in direzione opposta.
VIII – «La messe è molta, gli operai sono pochi…» (Mt 9,37)
36. Promuovete le vocazioni, quelle sacerdotali diocesane innanzitutto. Qui è necessario dire una parola chiara. Il Vescovo si deve preoccupare di tutte le vocazioni. Di fatto, quando io parlo ai giovani – nelle proposte della pastorale giovanile, negli Esercizi spirituali e nelle «scuole di preghiera», ecc. – sono attento a tutto l’arco dei bisogni ecclesiali. Esemplari sono i «Corsi di orienta- mento vocazionale», promossi dalla Diocesi per giovani e ragazze, dove si presentano esplicitamente tutte le vocazioni, da quella al matrimonio a quella per la vita contemplativa. Però è evidente che il Vescovo deve preoccuparsi prima di tutto delle vocazioni sacerdotali diocesane: la carenza di presbiteri mette in gioco la vita stessa della Diocesi, e condiziona ogni altro tipo di vocazione.
Senza vocazioni sacerdotali diocesane una Chiesa particolare si dimostra incapace di esprimere le forze della propria sopravvivenza spirituale. La successione apostolica è costitutiva della Chiesa e necessaria alla sua vita. Per questo non è senza gravi interrogativi il fatto che una comunità, diocesana e parrocchiale, non riesca a garantire a se stessa le vocazioni sacerdotali di cui ha bisogno.
Occorre quindi parlarne alla comunità, con forza e insistenza, interrogandosi perché questo accada: devono interrogarsi le famiglie, i sacerdoti, i catechisti, gli animatori della pastorale giovanile, dell’ACI, del volontariato, dei movimenti, associazioni e gruppi, ecc.; devono interrogarsi i giovani stessi.
E poi pregare e far pregare. Bisogna anche usare i mezzi che la nostra Chiesa mette a disposizione, quali le iniziative che i diversi Uffici diocesani (per il coordinamento della pastorale giovanile, per gli Esercizi spirituali ecc.) mettono in atto.
37. Con le vocazioni sacerdotali, di cui ho voluto sottolineare la necessità irriducibile, sollecitate e aiutate a crescere le vocazioni specifiche: religiose e missionarie, contemplative e, comunque, di speciale consacrazione, maschili e femminili. È compito primario del sacerdote sorreggere e guidare i battezzati nel discernimento del progetto di Dio su di loro, aiutandoli anche a rispondervi generosamente.
38. Promuovete il Diaconato permanente, i Ministeri istituiti e le innumerevoli forme di ministerialità laicale. Nella nostra comunità Dio effonde generosamente i doni dello Spirito: bisogna scoprirli, farli emergere e aiutarli a crescere. Se questi doni ci sono in alcune comunità, perché non debbono esserci in tutte?
Né si dica: «Io i diaconi non li voglio». Ma chi sei tu, che pretendi di discriminare i doni di Dio, facendo da padrone su una comunità che non tu, ma Dio ha generato e costruisce proprio con i doni dello Spirito? A te spetta aiutare il Vescovo a discernerli; non ti compete discriminarli, né giudicarli.
39. Infine promuovete in parrocchia l’Azione Cattolica. Dieci anni di assidua frequentazione della nostra Diocesi mi hanno convinto – se ne avessi avuto bisogno – della sua necessità e mi portano a dire che la sua mancanza non è stata riempita. Per questo sento il dovere di parlarne.
Innanzitutto, di che si tratta? Perché ho l’impressione che le idee non siano chiare (né io ho la presunzione di chiarirle, ora, in poche righe: mi accontento di aprire il discorso).
Si tratta di una singolare forma di «ministerialità laicale» a servizio del compito di evangelizzazione proprio della Chiesa.
L’Azione Cattolica è, quindi, in primo luogo, ordinata alla pastorale della Diocesi e della parrocchia: cioè alla loro autorealizzazione quali strumenti di annunzio missionario dell’evangelo di salvezza. Di conseguenza essa non ha propri piani pastorali, ma è a servizio di quelli della Comunità.
40. Si tratta ancora di una ministerialità non individuale, ma organica («a guisa di corpo organico, dice il Concilio, affinché sia meglio espressa la comunità della Chiesa e l’apostolato riesca più efficace»): è connotazione qualificante, che mette a servizio della pastorale non solo le singole persone, ma la ricchezza e la grazia di un «organismo» che abbraccia le diverse età, si articola in vari impegni apostolici ed ha una intelaiatura di collegamento diocesano, regionale e nazionale, che abilita a «servire» tutta la complessa realtà ecclesiale. La mediazione associativa è quindi strumentale rispetto al servizio ecclesiale e non, per sé, funzionale all’associazione stessa: ci si associa e si opera «insieme» perché questo è congeniale della Chiesa e per «servire» meglio.
La strutturale dimensione regionale e nazionale non lo sottrae surrettiziamente alla Chiesa locale, anzi ne rinvigorisce la dedizione, aprendola a dimensioni che sono essenziali per una realtà ecclesiale, che voglia vivere in sintonia col Concilio e la vocazione ecclesiale odierna; questa infatti ha orizzonti universali e non è più racchiudibile nel raggio d’ombra del campanile.
41. Inoltre l’Azione Cattolica ha come riferimento diretto i Sacri Pastori, con i quali è collegata da una scelta libera di dedizione ecclesiale, ritenendo di rispondere così a una chiamata del Signore. Il Vescovo e il parroco non «creano» questa singolare forma di ministerialità ecclesiale; ma, com’è per ogni realtà spirituale (diciamo pure, carismatica), hanno il dovere di accoglierla e farla crescere.
42. È infine una ministerialità «laicale». Rispettata, anzi valorizzata, e non mai ridotta a massa di manovra per qualsiasi tipo di progetto, che non sia l’annunzio del Vangelo nella storia, può dare alla pastorale occhi per vedere al di là delle mura «ecclesiastiche», orecchi per sentire ciò che «il mondo» sente; può essere quindi una presenza della Chiesa – attiva, responsabile e creativa – negli spazi impervi di una storia, che noi siamo ormai soliti chiamare radicalmente secolarizzata.
43. Ecco allora cos’è l’Azione Cattolica: laici che, rispondendo ad una vocazione del Signore riconosciuta dalla Chiesa, liberamente si associano e si rendono disponibili per l’attuazione degli obiettivi pastorali della Diocesi e della parrocchia: da ragazzi, da giovani, da adulti; per rendere la loro Chiesa presente sulle frontiere missionarie, soprattutto dove solo i battezzati laici possono essere presenti. E questo non per supplenza, ma a partire dal Battesimo e dalla volontà di rispondere a una chiamata del Signore. Una presenza riconosciuta dal Concilio e sollecitata in particolare dalla Chiesa italiana, per fedeltà alla sua storia.
44. Storicamente l’Azione Cattolica è nata, più di un secolo fa, da un impegno spontaneo di alcuni laici guidati da una lucida lettura dei bisogni del loro tempo. Poi via via la stessa Chiesa ufficiale l’ha riconosciuta e valorizzata, fino all’assunzione che ne ha fatto il Vaticano II al n. 20 dell’Apostolicam Actuositatem.
45. La nostra Chiesa ha bisogno di un laicato che, non solo la ami appassionatamente – questo dovrebbe essere di ogni battezzato – ma scelga di «servirla» come risposta a una vocazione, voglia darle voce e renderla presenza attiva e missionaria: con fedeltà incondizionata, libera e adulta; con amore nuziale come quello – perché no? – che devono avere per la loro Chiesa un Vescovo e un presbitero; con affetto filiale e, nello stesso tempo, con il vigore di chi rifiuta per la propria madre la sonnolenza e il torpore, a favore di una volontà missionaria audace e consegnata solo alla speranza, non mai al calcolo. Un laicato che, partecipe organicamente e volontariamente dei processi operativi e della strategia pastorale della sua Chiesa, l’aiuti – il Vescovo e i presbiteri in particolare, che sono pastori e guida – a «calibrare» il passo sul bisogno di salvezza dell’ambiente e ad aprirsi «appassionatamente» («caritas Christi urget nos») alla ricerca di chi è fuori, è lontano, patisce l’estraneità, di chi pecca ed erra senza sapere, di chi soffre… Perché la nostra sia una Chiesa segno di Gesù, venuto a cercare i malati, i peccatori e annunziare la lieta notizia ai poveri. Un piccolo concreto aiuto perché la Diocesi e la parrocchia siano una Chiesa di tutti e per tutti. Evidentemente insieme ad altre realtà e coordinata dal Consiglio Pastorale parrocchiale e diocesano.
Sono convinto che, senza questo tipo di laicato organicamente compaginato dentro i dinamismi pastorali della comunità cristiana, non riusciremo a renderla missionaria. C’è bisogno di un laicato strutturato che raccolga la voce della propria comunità e, come compito proprio, la traduca in prassi: assumendosi finalmente una parte di carico e di responsabilità nell’unità globale della Chiesa. C’è bisogno di un volontariato organico per la Chiesa diocesana: uomini e donne che compiano pienamente i doveri del loro stato, ma vogliano anche dare alla loro famiglia ecclesiale parte del loro tempo, come scelta vocazionale.
46. Se sono riuscito a spiegarmi, è evidente che io vi propongo l’Azione Cattolica non come migliore di altre realtà ecclesiali, ma per quello che è e che le altre non sono. Queste per lo più o si propongono direttamente obiettivi educativi della personalità umana e cristiana, e non un obiettivo direttamente pastorale; oppure sono fondamentalmente movimenti di spiritualità e quindi di rinnovamento della Chiesa, di forme diverse, suscitati da una personalità spirituale («carismatica»), con grande carica missionaria generalmente a dimensioni universali e, nello stesso tempo, con un forte spirito di identificazione col proprio movimento, il proprio riferimento carismatico e un preciso metodo pedagogico e pastorale: veri doni di Dio, che hanno reso e rendono preziosi servizi alla Chiesa. In questa, infatti, non c’è solo la realtà territoriale: essa, da sola, non è in grado di rispondere a tutte le esigenze di evangelizzazione e di presenza, richieste dal mondo d’oggi. La realtà territoriale – parrocchia e Diocesi – va integrata con altre realtà sovraparrocchiali e sovradiocesane: la storia della Chiesa ne ha sempre conosciuti. Essi possono esercitare, con la loro presenza e azione, anche un influsso benefico, di santificazione e di animazione, nelle parrocchie e nella Diocesi.
A loro confronto l’Azione Cattolica è una realtà forse più modesta; realizza però una funzione che le altre realtà strutturalmente non coprono.
47. La spiritualità dell’Azione Cattolica si inserisce fondamentalmente nello statuto di vita spirituale di ogni cristiano laico; aggiungendovi un impegno singolare a servire il Vangelo «insieme» (il discorso dell’organicità) e un particolare «affectus» per il proprio Vescovo e il proprio prete di parrocchia, al cui ministero, per scelta vocazionale, si è in modo particolare legati, con essi operando in collaborazione e reciprocità.
In questa linea l’Azione Cattolica deve assumersi compiti formativi nei confronti del laicato che associa e in mezzo a cui opera e può assolvere anche un servizio di formazione per il laicato di tutta la comunità. La sua organizzazione diocesana le consente di fornire strumenti pedagogici per animatori e operatori pastorali, aiutando così la crescita spirituale e pastorale dei laici.
48. È vero che, per sé, tutto questo dovrebbe essere qualità e compito di ogni battezzato. È anche vero che, di fatto, la realtà è ben diversa e che, per far questo, è necessaria una forte carica volontaristica.
Chiamiamo «grazia», «carisma», «vocazione» tale carica volontaristica, e avremo la realtà di cui stiamo parlando.
Chi fa questa scelta non è più cristiano degli altri, né quando un pastore accetta chi fa un servizio, discrimina chi non lo fa: riconosce solo che nella Chiesa ci sono tanti doni e diverse mansioni.
49. Qualcuno potrebbe dire: se questa è l’Azione Cattolica, io l’ho già nella mia parrocchia. Bene. E allora perché non collegarla con le altre realtà che, in Diocesi, hanno le stesse qualità spirituali e gli stessi obiettivi pastorali? Sarebbe una crescita di identificazione di tutta la nostra Chiesa, una prospettiva di maggiore efficacia; di creatività più originale, l’occasione di maturazione di un laicato che respiri con due polmoni: quello della parrocchia e quello della Diocesi che, nel Vescovo, è sincrono con la Chiesa universale.
Inoltre, collegati interparrocchialmente, questi battezzati laici avrebbero strumenti di crescita che presumibilmente in parrocchia non avrebbero e nello stesso tempo, porterebbero agli altri le speciali ricchezze della loro comunità; realizzando finalmente una circolazione di doni e di sensibilità.
Infine: perché il Vescovo non deve poter contare su un laicato così fatto, sapendone i nomi, con la possibilità di prendere il telefono e dire: «Se ci siete… questi sono i semi e questo è il campo: seminate!».
Se avete già l’equivalente dell’Azione Cattolica, fatevi riconoscere, camminate insieme: anche questo è amore di Chiesa!
50. Non dite, per favore: il Patriarca, per ragioni personali o culturali, privilegia l’Azione Cattolica: dieci anni di discrezione dovrebbero portarvi a giudicare diversamente.
Cerco, come voi, di essere docile allo Spirito, secondo quanto dice l’Apostolo: «Non spegnete lo Spirito, non disprezzate le profezie, esaminate ogni cosa, tenete ciò che è buono» (1Ts 5,21).
Godo quindi della presenza educativa dell’AGESCI, da me apprezzata per la sua capacità formativa concreta, per l’audacia con cui responsabilizza i capi, e la sua idoneità ad aggregare fasce di ragazzi e giovani non raggiungibili da altre realtà ecclesiali; esprimo incoraggiamento e apprezzamento per le varie realtà esistenti in Diocesi – Comunità Neocatecumenali, Comunione e Liberazione, Focolarini, Rinnovamento dello Spirito, Gifra, ecc. – per la loro vivacità, il fervore spirituale che le anima e l’impegno apostolico con cui realizzano le intuizioni spirituali dei Fondatori per il bene della Chiesa. Spero anzi che il documento pontificio sul laicato, che stiamo attendendo, mi offra occasione di parlarne più a lungo.
Mi compete però anche, con la stessa urgenza, il dovere del discernimento e della guida. Io ritengo che la Diocesi soffra della mancanza di una sua militanza laicale organica, che sia presente sulle frontiere quotidiane del mondo, dove ogni cristiano, ricco solo del Battesimo e dell’Eucaristia festiva, deve essere segno di Cristo, luce del mondo e punto di irradiazione del Vangelo.
E se il Signore ce la dona, quest’umile militanza laicale della parrocchia e della Diocesi, perché non accoglierla con riconoscenza?
IX – «Diamo a Cesare ciò che è di Cesare» (Mt 22,21)
51. È commovente l’umanità del Vangelo ed anche il suo realismo: Gesù mangiava, dormiva, lavorava, pagava i tributi allo Stato e al tempio, aiutava i poveri. Negli anni del suo ministero ci ha lasciato una chiara testimonianza di povertà, conducendo la vita del missionario itinerante, senza sicurezza (cf. Mt 8,20).
Alle necessità sue e degli apostoli provvedevano famiglie amiche e un gruppetto di donne (cf. Lc 8,1-3). Aveva anche una cassa e Giuda ne era l’amministratore (cf. Gv 12,6; 13,29); ad essa si attingeva per tutte le necessità e i doveri del suo piccolo gruppo.
Ricordiamo anche come spesso, nelle parabole soprattutto, traeva gli esempi dalla buona o dalla cattiva amministrazione.
52. Diventando parroci, assumete anche la rappresentanza legale della parrocchia: diventate soggetti di diritto, ma anche di doveri di fronte alla società civile. La prima testimonianza da dare alla comunità cristiana, in un Paese che non ha un radicato senso dello Stato e in una stagione in cui «la questione morale» appare grave agli occhi di tutti, è la correttezza e la trasparenza.
Siate quindi rispettosi delle leggi civili, pagando le imposte come ogni buon cittadino, memori delle parole di Paolo: «Rendete a ciascuno ciò che gli è dovuto: a chi il tributo, il tributo; a chi le tasse, le tasse; a chi il timore, il timore; a chi il rispetto, il rispetto» (Rm 13,7).
Davanti alla legge, il parroco – non il cappellano – risponde della parrocchia e di ciò che in essa abbia rilevanza pubblica: per es.: un incidente in patronato, uno spettacolo non autorizzato, ecc. ecc.
La giusta mercede ai dipendenti, le assicurazioni delle persone e dei beni, mobili e immobili, ecc., sono dovere del parroco.
53. Esigete «le consegne» della parrocchia, controfirmate dal Responsabile dell’Ufficio di Curia, in modo da essere cautelati nei confronti di chi rivendicasse ciò che voi non avete ricevuto. Per es. potrebbe esservi chiesto conto, da parte delle Sovrintendenze, di arredi, paramenti o quadri che, da tempo, non esistono più… È quindi necessario che in ogni parrocchia ci sia un inventario; se non ci fosse, è prudente e doveroso compilarlo.
54. Diventando parroci vi viene consegnato anche un archivio, che spesso è di notevole valore storico: abbiatene cura, non alienate assolutamente nulla, e siate diligenti anche nel tenere i libri prescritti (Battesimi, Matrimoni, ecc.).
Ci sono in Diocesi dei musei parrocchiali e degli archivi tenuti in modo degnissimo ed esemplare. Vorrei facessimo tutti così.
55. Nello stesso tempo, diventando parroci, sappiate che vi assumete l’onere dei debiti che di fatto – ne siate a conoscenza o no – gravano sulla parrocchia, anche se non condividete le spese fatte o il modo con cui sono state fatte.
56. Siate rigorosamente esatti nell’amministrazione del denaro e dei beni della parrocchia: il tempo del pressapochismo e dei sotterfugi è passato. La maturazione della coscienza comune esige sempre più responsabilità sociale e correttezza nell’amministrazione dei beni e del denaro. Le sottrazioni di denaro dovuto «ex lege» allo Stato o alla comunità ecclesiale, non sono più comprensibili, né scusabili.
57. Rispettate anche le leggi canoniche per quanto riguarda l’amministrazione delle elemosine delle SS. Messe, dei cosiddetti «legati» e «pie volontà», e dei beni della Chiesa, facendo le denunce annuali e chiedendo le doverose autorizzazioni per gli atti che le esigono, sapendo che talvolta tali autorizzazioni hanno anche rilevanza civile.
58. Ricordiamo che anche le leggi amministrative ecclesiastiche obbligano in co- scienza, anche perché, spesso, la loro preterizione causa danni alle persone.
59. La Chiesa italiana sta andando irrevocabilmente verso forme di solidarietà, di comunione anche economica e di perequazione. Questa peraltro è la precisa volontà del Concilio e del nuovo CJC. Sarebbe stato meglio ci fosse bastato il Vangelo: pieghiamoci almeno alla «dura lex». Nonostante tutte le resistenze di vecchia mentalità, il corso della storia va in quella direzione e il «sensus fidelium» è sempre più scandalizzato di certe nostre resistenze a un maggior distacco dal denaro e a una più evangelica solidarietà, non solo fra le persone, ma anche fra le comunità. Se noi, da parte nostra, continuiamo a far conto sul gruzzoletto, più che sul Padre che sta nei cieli (Mt 6,19.25-34), rendiamoci conto che l’anima della Chiesa è condotta dallo Spirito verso la fiducia nella Provvidenza. E la gente crede solo a chi vive così.
Vi esorto quindi a camminare in questa direzione: l’Ufficio Amministrativo è a vostra disposizione per aiutarvi. Se qualche volta può sembrare eccessivo nella prudenza, credete che è solo per aiutarvi a fare bene ciò intendete fare, onde evitarvi dispiaceri.
60. Vi raccomando di tenere in ordine la chiesa e la canonica. È imbarazzante per un nuovo parroco doversi interessare, come prima cosa, dei lavori da farsi in canonica, quando tutto il suo entusiasmo andrebbe investito nella pastorale. Capita invece che si lascino al successore canoniche impossibili. Mentre, se ogni anno si facesse una buona manutenzione ordinaria (servizi igienici, impianti idraulici, balconi, ecc.) a chi viene rimarrebbero pochi adattamenti.
Certo è dovere della comunità provvedere una casa decorosa ai propri sacerdoti; nuoce però all’immagine del nuovo prete il fatto di dover chiedere subito danaro per la propria abitazione. Si finisce così per gravare sempre anche sulla comunità diocesana, sottraendo risorse destinate alla carità e alle opere di apostolato – che poi son sempre risorse molto limitate – per aiutare parrocchie che, alla fin fine non sono povere e che, se avessero avuto una mentalità un po’ più saggia e provvida, oggi non si troverebbero nella condizione di fare ed esigere pesanti esborsi di danaro.
61. Diventando parroci o cambiando parrocchia, fate il testamento. Di fronte alla morte, che può venire in ogni momento (Lc 12,40), siamo pronti. Ciò che è della parrocchia, sia al più presto ad essa trasferito: in ogni caso destiniamo immediatamente alla parrocchia per testamento ciò che viene nelle nostre mani o si trova ad essere a noi legato, ma non ci appartiene. Che la morte non ci colga mentre ci sono appiccicate cose non nostre. Un codicillo al testamento olografo si fa in pochi minuti.
Depositate il testamento presso la Curia: è il riferimento più sicuro e agibile.
Se il testamento non è fatto presso un notaio, sia totalmente di vostro pugno (non scritto a macchina), con data completa, luogo e firma.
E siamo limpidi, trasparenti e uomini di Dio nel testamento.
In questi miei dieci anni di servizio alla nostra Chiesa, più volte mi sono dovuto dolere di cose mal fatte: certo in perfetta buona fede. Non basta un bel testamento spirituale; dobbiamo preoccuparci di essere esemplari ed edificanti anche nelle disposizioni relative ai beni. I testamenti spirituali suonano come convenzionali se non si è chiaramente edificanti col denaro.
62. Permettetemi un suggerimento: se avete qualcosa di vostro di cui possiate disporre non dimenticate mai i poveri della parrocchia, il Seminario, il fondo per i confratelli anziani e – magari solo con un piccolo segno – il cappellano che è vissuto con voi. Alla collaboratrice familiare è doveroso pensare in vita: si tratta di giustizia!
Diamo anche con lo «stile» del nostro testamento un volto buono e dignitoso al nostro ministero.
X – «Frutto dello Spirito è la gioia» (Gal 5,22)
63. Amo «toccare» un ultimo argomento: non siate festaioli e non sciupate danaro in tali iniziative; però ricordate che ogni comunità ha bisogno della festa. Altro è «l’essere festaioli» e altro è «la festosità»: questa appartiene alla più autentica spiritualità cristiana, è attesa del Signore che viene, è l’espressione della comunione dei fratelli nell’amore e della predilezione per i piccoli, è il volto della gratuità. Coloro che hanno le mani piene e gli arroganti non attendono nulla: non hanno bisogno della festosità; i piccoli, i poveri, gli uomini dal cuore mite, invece, ne godono.
La festa aggrega, fa comunità, dà identità, crea tradizione, sì che, coloro che han dovuto espatriare, il dì della festa, ritornano alle loro «radici». Ricordiamo l’identificazione di tutti gli Israeliti con Gerusalemme, al punto da dire: «Io là sono nato!» (cf. Sal 86).
XI – «Erano concordi… insieme con Maria» (Atti 1,14)
64. Impegnatevi a far maturare nella comunità che vi è stata affidata una consapevole e calda devozione a Maria, la madre di Gesù e madre nostra. L’accoglienza di Maria nel modo di vivere il mistero di Cristo appartiene alla nostra obbedienza a Dio, è fedeltà al Concilio che ne ha parlato in modo insuperato, è conforme alla «lex orandi» della Chiesa e risponde al genio cattolico italiano.
Il prezzo che pagheremo per le nostre riserve – ingiustificate di fronte a un chiaro magistero della Chiesa – saranno le mortificanti fughe della gente su strade inautentiche. Sarà inutile poi piangere sul latte versato.
Nello stesso tempo non confondiamo la «devozione» coi devozionismi, in buona parte responsabili degli eccessi «iconoclasti» che si sono verificati. La Marialis cultus di Paolo VI rimane un «vademecum», prezioso e indispensabile, per un pastore d’anime che voglia educare la sua comunità alla devozione autentica, secondo la mente della Chiesa.
Abbiamo le feste dell’Anno Liturgico e l’Avvento, i mesi di maggio e di ottobre dedicati dalla pietà popolare alla devozione mariana; abbiamo i santuari a cui «pellegrinare» di tanto in tanto, com’è profondamente iscritto in tutta la tradizione cristiana.
Tutte cose esistenti nella nostra prassi pastorale: basta valorizzarle e motivarle. Ma bisogna mettervi cuore. Il cristianesimo è la religione del cuore, della tenerezza e dell’umanità: perché «il Verbo si è fatto carne e ha posto in mezzo a noi la sua dimora» (Gv 1,14). In Lui si è rivelata a noi la «benignitas et humanitas salvatoris nostri Dei» (Tt 3,4).
La gente si aspetta che noi siamo uomini di fede. Non certo «rudes» e incomprensivi della cultura moderna, ma neanche sufficienti e cerebrali. Uomini di fede, illuminati e miti.
Anche i giovani attendono da noi che li riconduciamo a Maria per capire cosa significhi per loro e per tutti l’umanità di Cristo. Del resto la Mulieris dignitatem di Giovanni Paolo II, con il suo modo di accostare la parola di Dio, ci fa intuire quali e quante ricchezze il mistero di Maria riservi per una Chiesa che lo accosti con fede e con amore.
XII – Conclusione
65. Molte altre cose avrei in cuore da dirvi, ma faccio punto, perché… «il troppo storpia». Quanto vi ho scritto è solo un capitolo del «liber pastoralis» della nostra Chiesa; quel libro che andiamo scrivendo insieme, in questi anni.
Rileggendo queste note, ora che sono alla fine, mi prende lo sgomento di Ezechiele di fronte alle «ossa aride» sparse nella pianura. Allora mi nasce in cuore la preghiera ispirata del profeta: «Vieni con il tuo Spirito e soffia dai quattro venti su queste nostre ossa» (Ez 37,9). Penetrato dallo Spirito, anche le umili cose che vi ho detto, quasi conversando insieme – gli antichi padri avevano istituzionalizzato la «collocutio spiritualis» – diventeranno materiale di costruzione della «casa di Dio», che siete stati chiamati a edificare.
66. Mi piace chiudere con un’altra pagina biblica, ancora una volta sulle rive del mare di Galilea. Siamo dopo la Risurrezione; il Risorto è presente e accompagna sempre i passi dei suoi discepoli (cf. Lc 24), anche se non lo si vede (cf. Gv 20,29).
Era l’alba – ricordate: «Iam lucis orto sidere»? – e gli apostoli erano appena tornati, immusoniti e stanchi, da una pesca inutile. Stavano riassettando le loro barche sulla riva; quando si avvicinò uno sconosciuto, scambiarono con lui due battute spicciative. Ma egli disse loro: «Gettate la rete dalla parte destra della barca e farete una buona pesca» (Gv 21,6). E così accadde. Era il Signore.
La parte destra della barca è quella della fede.
Cari confratelli, nuovi parroci e non, giovani e anziani: all’inizio del nostro ministero e poi ogni giorno, gettiamo la rete dalla parte della fede. È il Signore a dircelo. Crediamo e non abbiamo mai paura. Anche se non lo vediamo, il Risorto cammina e lavora con noi (cf. Mt 16,20).
Il nostro ministero altro non è che gettare le reti dalla parte della fede, perché Lui, quando e come vorrà, le riempia di pesci. Anche noi – come gli apostoli e prima di loro, Gesù stesso – passeremo attraverso la prova della notte e dell’inutilità del nostro faticare. Sarà il momento in cui dovremo chiamare a raccolta tutte le nostre energie di fede per non aver paura e credere anche senza vedere. La notte del credente si scioglie sempre all’alba. L’alba è il Signore che viene (cf. Lc 1,78-79).
67. Vi consegno due parole:
«Andate»: all’inizio del vostro ministero, credete che è Lui a mandarvi. Ma crediamolo tutti, anche noi più vecchi e i più giovani; crediamolo ogni giorno. Prima che il nostro giorno incominci, Lui viene e ci illumina la strada.
«Vieni, Signore Gesù». Vieni e non lasciarci mai soli (Lc 24,29). E al calar della giornata, ricordiamo che Lui è il «Lucifer» che trasforma la nostra sera nel «giorno che non conosce tramonto». Il Vespero anticamente si chiamava «lucernario», perché canta le lodi di Cristo, luce che viene, a redimere le nostre tenebre.
Vi saluto e vi benedico tutti con affetto, affidandovi a Maria, la Madre di Gesù.
- note:
nota del curatore
[1] Così nel testo di RDPV, ma il riferimento è evidentemente incongruente.
- allegati:
- Scarica il pdf, opuscolo estratto da RDPV

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