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  3. 7 Programmazione pastorale

In cammino verso il Grande Giubileo

  • Riflessioni all’assemblea del presbiterio sul programma pastorale 1996-97
  • S.E. card. Marco Cè, patriarca di Venezia
  • Venezia
  • Basilica di San Marco
  • 10-10-1996
  • 1996

Convocati in San Marco: perché? 

1. Ogni anno l’incontro sul programma pastorale è un momento di grazia per la presenza del Signore che lo abita (Mt 18,20: dove sono due o tre riuniti nel mio nome io sarò in mezzo a loro) e la comunione trinitaria che lo ravviva. 

Quest’anno il programma è ormai largamente conosciuto e don Valter, nella seconda parte del nostro incontro, lo ricorderà nei suoi snodi operativi. 

Perché allora questa convocazione in San Marco? 

Perché per noi San Marco non è soltanto un luogo spiritualmente significativo, bensì il simbolo del nostro Battesimo, della “missione” di ciascuno di noi espressa nella consacrazione crismale e presbiterale, dell’unica Eucaristia che fa unità di tutte le Eucaristie della nostra Chiesa particolare nel rito del fermento e nel ricordo del Vescovo, nel segno dell’ambone su cui si aprono tutti i libri delle Sacre Scritture. San Marco infine custodisce le radici della nostra fede nelle reliquie del nostro Patrono, martire, evangelista e fondatore di Chiese. Per questo nei momenti più importanti del nostro pellegrinaggio di fede noi ci convochiamo in San Marco.

Io amo pensare a questo nostro incontro sulla stregua di quello avvenuto ad Antiochia (At 13,1-3), quando, in un contesto di preghiera, di invocazione dello Spirito Santo e di imposizione delle mani, Paolo e Barnaba furono da Dio “riservati” per sé e mandati “ad gentes”: un capitolo decisivo nella storia della evangelizzazione del mondo greco-romano.

Noi, intonando il grande tema della “Domenica” – la festa che noi facciamo al Risorto e che, prima ancora, il Padre prepara per noi – “partiamo” verso il Grande Giubileo che celebrerà il 2° millennio della nascita di Gesù, il Signore. 

E ci siamo raccolti in San Marco, perché vogliamo come riascoltare la grazia delle parole con cui incomincia il secondo Vangelo, che poi ci accompagnerà tutto quest’anno e che io traduco liberamente così: “La prima lieta notizia che Dio Padre ci dona è che Gesù Cristo è il Figlio di Dio”. È la professione della nostra fede; è la fede del nostro Battesimo.

E la prima parola che Gesù ci dice a nome del Padre è: “Il tempo della salvezza è venuto e il Regno di Dio è vicino. Cambiate vita e credete in questo lieto messaggio” (Mc 1,15).

Così noi oggi da San Marco ci mettiamo in cammino verso il Grande Giubileo: partiamo tutti insieme, con gioia tracciando i sentieri della speranza per la Chiesa delle nuove generazioni, cantando “Alleluja”. 

Il nostro pellegrinaggio giubilare incomincia così: davanti al Pantocrator, alla Nicopeia, alle reliquie del martire ed evangelista Marco. 

Incomincia nel cuore della nostra storia: anche questo vuol significare la nostra convocazione nel tempio che è cattedrale, ma anche punto cardine della nostra “civitas”. Celebrando la Domenica, “dies salutis”, e camminando verso il bimillenario della nascita di Gesù, il Salvatore del mondo, noi vogliamo essere come un pugno di lievito che fermenta la pasta della storia, annunziando la novità e la speranza della Pasqua. 

Non dimentichiamolo mai: la Domenica e il Giubileo sono indisgiungibili dalla Pasqua del Signore Gesù, sono atti di fede nel Risorto, il Vivente, unico Salvatore del mondo. 

Giustificazione d’una programmazione della pastorale 

2. Un programma pastorale richiede necessariamente, insieme alla grazia dello Spirito Santo, l’esercizio della razionalità: tale esercizio appartiene essenzialmente alla carità pastorale. Questa, proprio perché “carità del pastore”, cioè di coloro che sono alla guida, non può essere intesa soltanto come dedizione e generosità, comunque realizzate, ma deve essere documentata conoscenza della situazione storica d’una Chiesa e della cultura che essa respira vivendoci dentro. “Non può una Chiesa in situazione post-cristiana continuare a presentare il volto che aveva nella situazione di cristianità, cioè continuare la prassi pastorale e, in essa, l’esercizio del ministero presbiterale in atto nella situazione di cristianità; non può perché manca al suo compito, globalmente il compito della evangelizzazione, perché evangelizzerebbe il passato invece del presente, il passato che non c’è più; in altri termini non evangelizzerebbe” (cf. G. Colombo, Riv. Cl. It., maggio 1989, p. 336). 

È quindi necessaria una razionalità pastorale, cioè una programmazione che sappia dare ragione di sé. Solo questo è autentica carità pastorale ed è, oltre tutto, anche una esigenza di rispetto delle persone che costituiscono la comunità, le quali hanno il diritto d’essere guidate secondo intelligenza e devono poter comprendere e condividere le ragioni delle scelte che, di fatto, condizionano l’intera comunità. La partecipazione delle diverse componenti della comunità alle analisi della situazione storica e alle scelte pastorali conseguenti, appartiene ad una saggezza attinente la fede e lo Spirito Santo (al Battesimo, quindi), alla quale sarebbe esiziale sottrarsi. 

Anche l’esercizio della razionalità è quindi carità pastorale. Si può essere santi (fatta salva quindi tutta la soggettiva buona fede) senza essere buoni pastori. Per il bene della Chiesa e della comunità che ci è stata affidata, bisogna unire i due termini. L’autentica carità pastorale, e quindi la vera santità, sta in questa sintesi. Si è buoni pastori solo se si conosce “il gregge”, cioè la comunità: la sua storia, la sua cultura, le condizioni concrete in cui essa vive, le idee che respirano i giovani nel loro mondo, nelle scuole e nelle Università ecc. (Venezia non è Padova, né Treviso né Roma). La pastorale è segnata dalla storicità. 

Infine si è buoni pastori se si fa sincero riferimento alla propria Chiesa particolare: lì la fede di ciascuno di noi è radicata. È l’orizzonte del Concilio Vaticano II che ha messo a tema la dottrina della sacramentalità dell’episcopato e quella sulla Chiesa particolare. 

La formazione permanente 

3. Qui trova la sua giustificazione anche il discorso della nostra formazione permanente, sul quale il Magistero del Papa e dei Vescovi, proprio in questi nostri tempi, insiste continuamente. 

Il programma predisposto dalla Commissione appositamente costituita tende proprio a questo. Su questo tema sarebbe necessaria una riflessione più approfondita: ma non è questa la sede.  

 

4. Il programma pastorale di quest’anno: Domenica, giorno di Dio per l’uomo, è stato stampato e diffuso prima dell’estate. È quindi noto. 

A me preme farne cogliere l’anima e, nello stesso tempo, rendere tutti vigilanti sul soffio dello Spirito che percorre la nostra Chiesa, a cui dobbiamo aprire il cuore. 

Celebrare nella fede la domenica significa credere in Gesù, Figlio di Dio, unico Salvatore del mondo, il Vivente; e dirgli, come Tommaso, le parole battesimali che salvano: “Signore mio e mio Dio”. Sono convinto che nel programma che ci siamo proposti e che va al cuore della nostra vita di fede, il nostro futuro è già presente. Ed è un futuro di speranza. 

Perché? Perché anche quest’anno, come in quelli precedenti, stiamo lavorando sulle strade più autentiche. Noi vogliamo ravvivare la fede battesimale dei giovani e degli adulti; vogliamo riconsegnare ai coniugi e ai giovani il senso cristiano del Matrimonio e della famiglia. Facciamo molta fatica a ricuperare e a ravvivare questo nucleo battesimale: ma è la fatica di un mondo nuovo che nasce. 

Gesù di Nazareth, Figlio di Dio, unico Salvatore del mondo 

5. Innanzitutto con il programma di quest’anno noi ci immettiamo nel cammino triennale della Chiesa universale verso la celebrazione del bimillenario della nascita di Gesù. Infatti il cuore di quanto noi vogliamo proporre mediante il Giorno del Signore altro non è che la fede in Gesù Cristo, il Figlio di Dio morto e risorto, unico nostro Salvatore. 

Di fatto questo è il problema. Oggi non è in gioco tanto “il bisogno religioso”, che è fortemente insorgente, anche se, talora, in maniera scomposta; neanche è in gioco soltanto un problema etico (anche se i comportamenti obbediscono troppo spesso a modelli relativistici e a un soggettivismo esasperato). Il vero problema è quello radicale: la fede in Gesù di Nazareth, nella sua incomparabile unicità di Figlio di Dio, nato da Maria Vergine, morto in croce e da Dio approvato mediante la Risurrezione.

Il giorno del Signore, che ha nel cuore la celebrazione eucaristica, nella proclamazione-ascolto della Parola e nell’anamnesi pasquale, ci fa incontrare con Lui dentro la comunità credente e ce lo dona. Perché poi nella nostra vita portiamo a compimento il suo mistero, camminando verso “Lui che viene, Signore della storia”. 

Per noi “riprendere in mano” il Giorno del Signore non è, prima di tutto, un fatto di promozione pastorale, ma è un atto di fede; è lasciarci condurre da Dio stesso nel cuore del mistero cristiano a cui siamo stati consegnati dal Battesimo e dal dono dello Spirito Santo, per entrare in comunione con il Risorto, accogliendo la sua parola e nutrendoci del suo corpo e del suo sangue, perché Lui viva in noi (cf. Gal 2,20) e, mediante noi, porti a compimento il suo mistero (cf. Col 1,24). La comunione con lui è la nostra vita (cf. Gv 15,1ss). Il Giorno del Signore è il giorno della vita. 

Per noi il giorno del Signore è Gesù Cristo incontrato, conosciuto, amato, seguito, perché noi possiamo essere e diventare sempre più, nella storia, sua memoria. 

Di fatto rendere testimonianza al Risorto (“Voi mi sarete testimoni...” – cf. At 1,8) significa in concreto essere memoria vivente di lui nella storia degli uomini, ascoltando la sua parola (fatta fiorire dallo Spirito nell’oggi in cui viviamo) e praticandola: questa è l’identità cristiana, questo è l’obiettivo e il senso profondo della domenica. E vale sia come persone individue, sia come comunità cristiana: infatti “l’essere in Cristo” ci fa suo corpo e, quindi, comunità dei discepoli. La domenica è costitutivamente la festa del Risorto e della comunità in cui Egli vive e che, a sua volta, gli rende testimonianza. 

L’Eucaristia, regola della vita cristiana

6. Nell’Eucaristia c’è tutto questo come nel cuore c’è la potenza vitale che anima e muove l’organismo. L’Eucaristia genera un giorno che dà senso a tutta la vita; genera ed è norma dei comportamenti: diventa “la regola” della vita dei battezzati. 

L’Eucaristia, grazie all’azione dello Spirito, diventa la nostra legge, nella linea dell’obbedienza al Padre e del dono di sé ai fratelli: corpo donato e sangue versato. Ma diventa anche la forza, l’unica forza, per vivere questa legge. Infine l’Eucaristia “manda” sulle strade degli uomini e in esse porta la profezia della “festa”. Il Battesimo è germe di vita festosa e l’Eucaristia ne è il banchetto di nozze: lì si intona l’Alleluja, l’inno dei salvati, che è presentimento della festa senza tramonto. 

Il testo del programma articola e svolge tutto questo, mettendolo in evidenza. 

Ma bisogna cogliere e mai dimenticare il centro vitale e fontale di tutto: l’incontro di fede con l’adorabile persona di Gesù, “l’evento” che ci ha salvato e che continua nella comunità credente e missionaria, sia nella celebrazione dei divini misteri, come anche nella sua testimonianza di vita. Cristo è ieri, è oggi e sempre. 

L’Eucaristia domenicale è “l’evento del Vangelo”, l’approdo di tutta la storia della salvezza, l’avverarsi di tutte le Scritture: è la Pasqua del Signore, anticipazione dell’incontro salvatore con Lui, speranza di gloria. 

Essa è generatrice di una comunità cristiana: ne ricupera il senso, i dinamismi di comunione, le infonde sicura speranza, la sostiene nel cammino. La comunità è costitutiva dell’essere cristiano, è radicata nel mistero trinitario. Domenica e comunità interferiscono reciprocamente. (E qui, con la mobilità propria del nostro tempo, si creano problemi pastorali difficili da impostare). La domenica è anche il lievito pasquale posto nella pasta della storia, capace di vivificarla. 

L’Eucaristia domenicale esprime infine il senso del ministero ordinato, perché all’Eucaristia esso è funzionale; ma è anche generatrice della ministerialità e missionarietà laicale: “sine dominico christiani esse non possumus”. 

Il potenziale più ricco ed esplosivo d’una vita cristiana viene proprio dalla grazia redentrice e divinizzante della Pasqua: il Risorto lo porta a coloro che, nel primo giorno dopo il sabato, Egli convoca e incontra. 

Una prassi da ravvivare

7. Ma tutto questo può essere inteso come vacuo fantasticare se la domenica, con l’Eucaristia che in essa si celebra, non riuscisse prima di tutto ad essere un atto di fede e un incontro reale con l’adorabile persona del Risorto; se non riuscisse ad essere un momento in cui ci prostriamo davanti e Lui con la gioia di Maria al sepolcro (Gv 20,16) e lo stupore di Tommaso che esclama, vedendolo: “Mio Signore e mio Dio!” (Gv 20,28). 

Conosco quanto umili e povere sono spesso le nostre celebrazioni eucaristiche.

Ricordiamoci però che non è la disponibilità di mezzi celebrativi straordinari che rende vive e commosse le nostre Eucaristie, bensì la consapevolezza del mistero cui partecipiamo: essa esorcizza la ripetitività, la stereotipia, la stanchezza annoiata di tante Messe, comprensibili e inevitabili se l’Eucaristia è un “rito” domenicale, importantissimo e doveroso, ma solo “rito”, e non quel vulcano di amore e di vita, di relazione personale con Dio che invece è: vera consumazione del mistero sponsale fra Cristo e la Chiesa, anticipazione delle nozze eterne dell’Agnello. 

Quando il Signore arrivava in un luogo, guariva, rendeva contenti, rendeva anche pensosi. Certamente non annoiava. Deve essere così delle nostre Eucaristie. 

Quest’anno dobbiamo riscoprire la gioia, la potenza – ogni settimana vitalizzante, rinnovatrice e terapeutica – della Domenica e la sua capacità di costruire e qualificare la comunità cristiana. Se volete, anche la sua insopprimibile capacità di inquietare. 

Educare a una celebrazione più significativa e a una partecipazione più piena

8. La domenica, ricuperata nel suo senso e nel suo valore pasquale, ci apre all’esperienza di Tommaso e degli apostoli sul mare di Tiberiade, dopo la Pasqua: essa “è il Signore” che ci attende, per dare vita e forza alla nostra fatica di costruire il mondo e ci prepara il cibo, perché Lui viva in noi (cf. Gv 21). 

È questo il senso del primo obiettivo pratico del nostro programma pastorale: rieducare i battezzati al “Giorno del Signore” mediante la catechesi. 

Voi mi direte: tutto questo è utopia con le nostre “povere” comunità. Venga a vederle le nostre Messe, senza animatori, senza cantori, senza lettori; dove i preti devono fare tutto.

Incominciamo col dire che l’unica Messa celebrata da Gesù (mi si perdoni questo linguaggio molto approssimativo: mi riferisco all’istituzione dell’Eucaristia nell’ultima cena) è stata da lui voluta in un luogo bello, “nella stanza superiore”, adornata di tappeti e di luci. E la più antica tradizione eucaristica ci lascia la memoria di Eucaristie calde, partecipate. I numeri dei partecipanti erano certamente molto piccoli e i mezzi poverissimi. Il rischio di svuotamento non viene dal numero o dalla povertà, ma dal ridurre a “rito” un evento incandescente com’è l’Eucaristia. 

Certo, i fenomeni di “crisi” dell’Eucaristia nella storia sono incominciati molto presto (basta ricordare quanto dice S. Paolo nella 1^ lettera ai Corinti, al cap. 11) e vanno di pari passo con la fede vissuta: sull’Eucaristia e su “Il Giorno del Signore”, che essa genera, è necessaria allora una profonda conversione: conversione alla fede, alla persona di Gesù, al suo insegnamento veritativo e morale. Ci vorranno anni di sforzo pastorale. Ma è una sfida da accettare. Una comunità vera, la missionarietà, la santità dei comportamenti, la capacità di essere testimoni anche a prezzo della vita, affondano le radici nell’Eucaristia del Giorno del Signore.

La famiglia soggetto e luogo del Giorno del Signore

9. È il terzo obiettivo concreto del nostro programma ed è la linea, condotta ormai da diversi anni, dalla nostra Pastorale per il Matrimonio e la Famiglia. 

Il nesso Eucaristia-Sacramento del Matrimonio è fontale e fondante; l’Eucaristia è il luogo generante d’una spiritualità dei coniugi e della famiglia, della sua apertura ai più deboli e alle situazioni di sofferenza fisica e morale, oltre che della sua missionarietà. 

Io colgo questa occasione per sottolineare la centralità della famiglia nel nostro impegno pastorale: oggi il punto critico è al livello “famiglia”, sia sul piano della fede, che su quello umano (antropologico) e sociale. Se questo è avvertito a livello teorico (si sa che è così), la prassi è ancora lontana dal prenderne atto con gesti concreti. Basti pensare alla struttura forte della pastorale catechistica per i ragazzi dell’Iniziazione Cristiana a fronte della struttura debole della pastorale parrocchiale del matrimonio e della famiglia: se pur esiste.

Quando per l’Eucaristia si moriva

10. Nel testo del programma diocesano viene data molta importanza ai martiri di Abitene, che hanno dato la vita, versando il sangue, per affermare la loro fedeltà al giorno del Signore. 

Io ritengo che l’appello ai martiri di Abitene non debba essere ridotto a puro richiamo edificante: esso ci riconduce ancora una volta al “problema serio” della nostra generazione, il problema della fede, che viene giocato nel giorno del Signore. È evidente che la secolarizzazione (più propriamente il secolarismo) sta portando i suoi esiti più radicali ormai in tutti i settori della vita e – quello che è proprio di questa nostra generazione – è diventato ormai fenomeno di massa. Oggi non c’è più Dio, non c’è più neanche la religione laica della classe sociale o della solidarietà ecc. C’è spesso, come aria che si respira, solo “l’amor sui”, l’egoismo individuale e di massa. Questo sta appiattendo tutto e ottundendo tutto. Questo ha ucciso la stessa “politica”. È la dissoluzione, non solo del regime di cristianità, ma di ogni tipo di “fede” in una idolatria del “secolo”, inteso nella sua accezione più soggettivistica e relativistica, radicalmente egoista e antisolidarista, idolatra dell’interesse particolare o lobbista. 

Dissolvendo “il giorno del Signore” nel “fine settimana”, eliminando l’Eucaristia domenicale e quindi anche una fondamentale istanza comunitaria e della fede, di fatto si attenta al cuore della fede cristiana. Può rimanere un’etica, ma fondata su che cosa? Si può ancora parlare di cristianesimo, se non c’è la proclamazione che Gesù di Nazareth, il Crocifisso, che si proclamava Figlio di Dio, è risorto ed è ancora con noi?  

 

11. Non mi stupisce che il Papa in questo scorcio di secolo voglia riscrivere il martirologio, salvando per il nostro tempo la memoria dei martiri, uomini e donne, uccisi dal nazismo, dal comunismo, dal fascismo, dai fondamentalismi (dove la stessa religione è ridotta a idolo), da tutti gli anticristi che hanno voluto eliminare Dio e hanno ucciso l’uomo. I martiri – anche gli ultimi, come i monaci algerini e l’Arcivescovo di Orano – posti di fronte alle decisioni radicali, scegliendo Dio, hanno salvato il valore dell’uomo e il senso del cristianesimo come fede nel Figlio di Dio che ha sconfitto la morte e dà la vita. Il martirio è proclamazione di libertà, negazione degli assoluti umani. 

Perché la domenica lascia i cristiani indifferenti? Forse perché non è più l’incontro con il Risorto che porta le piaghe della crocifissione? 

Non è pensabile il cristianesimo senza martirio: esso appartiene al suo genio originale. Prima della pace di Costantino, quando uno riceveva il Battesimo, metteva nel conto personale il martirio. I Vescovi raccomandavano di non essere presuntuosi col martirio: esso, dicevano, è solo chiamata e dono di Dio. Ci furono anche esagerazioni. 

Ma questa pagina sui martiri nel nostro programma è un lampo di luce da non perdere. Noi sappiamo che martirio non vuol dire “sangue”, ma discepolato, “sequela Christi” totale, radicale: offerta a tutti. Ma “sequela Christi” significa esattamente incontrare nella fede la persona del Signore e donarsi ad essa: “Vai, vendi tutto e seguimi”. Ma qual è l’esperienza più forte dell’incontro personale col Risorto se non l’Eucaristia domenicale e poi un giorno intero per goderla, lasciandoci invadere dal paradiso che in essa c’è: “spes gloriae”? 

Io vorrei consegnare questa tematica del martirio ai giovani, ai fidanzati, ai giovani sposi, perché ritrovino la forza della fede nel Signore Gesù e rifiutino di essere trascinati e massificati dall’egoismo o dal consumismo sempre più demotivato e invasivo. 

La Domenica, giorno di Dio per l’uomo 

12. Un giorno per costruire l’uomo secondo il disegno di Dio: un uomo libero e capace di portare a compimento il progetto di Dio di cui parla la lettera ai Colossesi; un giorno per abbattere gli idoli che uccidono l’uomo: p.es. l’idolo danaro, o anche l’idolo lavoro/produttività elevata a valore supremo. 

“Il Giorno del Signore”, grazie all’Eucaristia di cui è portatore, per la centralità rispetto a tutti i sacramenti, per la convocazione della Chiesa (l’Eucaristia fa la Chiesa), per la missione a cui impegna, è, senza dubbio, il fattore più alto di santità battesimale: esso ne contiene tutta la grazia. Nella domenica (Parola, Eucaristia, comunità) c’è la grazia che ci fa “memoria di Cristo” nella storia. Essa infatti è costruttrice del cristiano e del popolo di Dio; essa coi suoi doni forma i cristiani, plasma la comunità: ai cristiani poi compete, nella libertà dei figli di Dio, costruire la storia. 

La domenica dovrebbe assumere perciò un posto decisivo nell’azione pastorale formativa del singolo e della comunità: perché ne possiede gli strumenti. Ma la domenica custodisce anche “la riserva critica” nei confronti di quelle visioni globali del mondo che strumentalizzano l’uomo, spogliandolo dei suoi spazi essenziali per vivere i rapporti con Dio, con se stesso, la famiglia e gli altri. 

La Parola di Dio 

13. Certo gli strumenti formativi vanno restituiti ai singoli e alla comunità. 

Non ci sarà mai vera partecipazione all’Eucaristia, senza il “gusto” e la capacità di nutrirsi della Parola di Dio. Si ricorrerà ai surrogati. L’educazione alla Parola di Dio è educazione alla docilità allo Spirito, alla libertà, alla maturità e alla responsabilità cristiana. È anche capacità (donata appunto dallo Spirito) di tradurre il Vangelo nella storia. 

Da qui l’importanza dell’omelia, il pane quotidiano preparato dalle mani del Padre per i suoi figli. L’omelia è un momento essenziale dell’Eucaristia, è la forma più alta di paternità spirituale, è una “parturitio” nella fede (in forza della quale si può dire: Figli carissimi; cf. Gal 4,19), e quanto di più prezioso si possa fare per una comunità cristiana. L’omelia decide la vita della comunità, è sacramento, memoria reale della parola di Gesù; è la forma più elementare, ma anche più decisiva, di direzione spirituale, è sempre accompagnata dall’effusione dello Spirito Santo (anche se io, predicatore, sono peccatore, perché l’omelia è sempre un’azione di Dio che mi supera); è anche per me, prete, una chiamata forte alla coerenza e alla santità. 

La Lettera apostolica: “Tertio Millennio Adveniente”, dopo avere affermato con forza commovente e stupefacente che la preparazione al Grande Giubileo è la riscoperta viva e vissuta del Concilio, assegna per il 1997 lo studio della Costituzione “Dei Verbum”. 

Noi lo faremo come presbiterio. 

Ma dobbiamo trovare il modo di consegnare la Parola di Dio anche “tematicamente” alla comunità: spiegando quale dono essa è per la nostra vita.  

D’altro canto ha consistenza “il giorno del Signore” senza un senso vivo e riflesso di ciò che è la Parola di Dio nella vita cristiana? 

La Liturgia della Parola è parte essenziale dell’Eucaristia: nel mistero del corpo donato e del sangue versato si compie ciò che nella Bibbia si annunzia, dalla prima all’ultima parola (cf. Lc 24,25-27; 44-48); e la strada per entrare (comprendere e partecipare) nel mistero dell’Eucaristia è “la Parola”: in essa infatti si attua la divina pedagogia che conduce l’uomo all’incontro salvatore col Verbo incarnato. “Ignorantia Scripturarum ignorantia Christi est”, afferma S. Girolamo. (“La non conoscenza delle Scritture è non conoscenza di Gesù Cristo). Solo le divine Scritture ci svelano il vero e pieno volto di Cristo, che visse, giorno per giorno, “come sta scritto”. 

C’è in Diocesi una Scuola Biblica che si va sempre più diffondendo e si diffonderebbe ancora di più se avessimo a disposizione un maggior numero di maestri e guide. 

Possiamo dire che oggi c’è fame e sete della Parola di Dio. E questo è uno dei segni di speranza più autentici e più sicuri. 

La Catechesi degli adulti 

14. La Parola di Dio ci apre la strada a quella che noi chiamiamo “la catechesi degli adulti”, cioè al momento di riflessione sulla Parola stessa, alla luce della tradizione ecclesiale (quell’alveo vivo in cui la Parola stessa è stata incubata ed è cresciuta nella fioritura dei suoi sensi), alla ricerca del significato non solo del dettato biblico, ma di ciò che lo Spirito, mediante la Parola, dice alla Chiesa. Non è possibile una catechesi degli adulti che non apra contestualmente i due libri: quello della Bibbia e quello del Catechismo (la riflessione di fede della Chiesa). Così ci insegnano costantemente degli antichi Padri: la Bibbia va letta sulle ginocchia della Chiesa.  

Sarebbe un grande servizio alla crescita della nostra comunità se chi si fa guida nella lettura della Bibbia, valorizzasse quanto più possibile il “Catechismo degli adulti”, mostrando come la Chiesa eserciti il suo sforzo di riflessione sulla Parola di Dio per applicarla alla vita (in modo che la Parola di Dio diventi “norma”, regola di vita) e anche perché la Parola sia assunta come “giudizio” della storia. E a loro volta i catechisti dovrebbero sempre evidenziare la fondazione biblica di ciò che, in nome della Chiesa, insegnano e propongono. Questo è ciò che noi chiamiamo la tradizione vivente. 

La Bibbia è viva nella Chiesa: ne genera la vita, in qualche modo, viene essa stessa sempre generata (“crescit cum legente”), al modo del Verbo che dalla Vergine Maria riceve la carne con cui diventa visibile e diventa anche “parola” che l’uomo può ascoltare, vedere e toccare. Mi parrebbe importante e vitale per la nostra Chiesa questo “circolo virtuoso” fra Scuola della Parola e Catechesi. 

Giorno del Signore e civiltà dell’amore 

15. Se appena appena abbiamo compreso il senso de “Il Giorno del Signore”, abbiamo percepito anche la forza con cui il cristiano deve essere “dentro la storia” con amore. Come “Il Giorno del Signore” è nel tempo, anche se lo trascende, come al sacramento eucaristico sono necessari il pane e il vino frutto della terra e del lavoro dell’uomo, così non c’è Giorno del Signore ed Eucaristia che non si traducano nella relazione con l’altro e nel dono di sé sull’esempio di Gesù; quel Gesù che non ci sta solo “davanti” come modello da imitare, ma in cui noi viviamo, come il tralcio vive sulla vite e ne porta i frutti (cf. Gv 15,1ss). E qui si aprono i capitoli dell’amore fraterno, della solidarietà verso il povero, l’ammalato, lo straniero, il pellegrino; l’importante capitolo della carità della verità; e quello, ahimè, così dimenticato della riconciliazione (io mi commuovo quando sento il Papa domandar perdono delle colpe storiche della Chiesa – lo ha fatto recentemente anche in Vandea), ma – vi confesso – non riesco a placare il mio scandalo quando percepisco le nostre palesi non-riconciliazioni, per non dire delle nostre non-riconciliazioni dentro la memoria, smentendo quanto Dio dice: “Non ricorderò più le vostre colpe”. 

Ma tutto questo non basta: oggi occorre anche la carità politica, perché il male è diventato molto profondo ed ha generato strutture di peccato (l’ingiustizia, ma anche l’illegalità e l’immoralità) che hanno invaso la società. È necessario promuovere una cultura della legalità e della solidarietà, radicata in un Principio trascendente e universale. La Caritas, che in questi anni prima del 2000 vorrei vedere nascere in tutte le parrocchie, dovrebbe essere, prima di ogni altra cosa, luogo educativo perché l’amore diventi cultura, “la civiltà dell’amore”, profeticamente annunziata da Paolo VI. 

Conclusione 

Priorità dell’impegno formativo dei laici 

16.1. Ciò che vi ho detto finora aveva l’intento di evidenziare la carica formativa di cui è portatore il programma pastorale di quest’anno (cf. anche il 4° obiettivo del programma). Senza i battezzati laici – senza l’apporto attivo e responsabile delle famiglie, dei giovani – non si riconsegna alla comunità cristiana una “domenica viva”. Sono convinto che “la formazione del cristiano” sia l’investimento più promettente per una Chiesa. 

Il futuro sarà costruito dai cristiani capaci di vivere con libertà e responsabilità adulta il Vangelo nella storia: uomini e donne consapevoli e liberi, capaci di scelte e decisioni coerenti con la loro fede, testimoni dell’unicità e della singolarità dell’essere battezzati, cioè credenti nel Signore Gesù. 

Per questo, accanto ai programmi pastorali, la nostra Chiesa fa anche una proposta di Scuola di preghiera e di Esercizi spirituali. 

Io vi chiedo di farvene carico: anzi dovremmo avere il coraggio di “investire” ancora di più in questa direzione. 

Evidentemente nessun mezzo deve essere assolutizzato: a salvarci è solo Gesù Cristo. Però nella vita di un cristiano la scoperta della preghiera e l’esperienza dell’ascolto di Dio, – “solo sul monte”, come Gesù dopo la moltiplicazione dei pani (cf. Gv 6,15) – in un mondo. che frastorna nella frenesia dell’azione, è normalmente un fatto decisivo. 

In vista del Giubileo, perché in questo triennio la Pentecoste diventi primavera per la nostra Chiesa, perché in mezzo a noi fiorisca la santità (ci sono tanti santi nelle nostre comunità: vanno aiutati, nutriti, fatti fiorire per la gioia e la speranza della Chiesa) e rinascano le vocazioni, io invoco le Scuole di preghiera e propongo a tutti gli Esercizi spirituali: “Oggi, se ascoltate la mia voce, non si indurisca il vostro cuore” (Sl 90). 

Non temete, piccolo gregge 

16.2. Guardando davanti a me non vedo un futuro facile; vedo anzi una deriva secolarista sempre più invasiva. Del resto la monocultura turistica, coi suoi trascinamenti verso un relativismo sempre più tollerante e un soggettivismo sempre più demotivato, e altri fenomeni ancora, ci portano in questa direzione. 

Io però sono convinto che questi non sono i ragionamenti più importanti. Per me il discorso decisivo è quello profetico: che noi crediamo in Gesù Cristo e ci convertiamo a Lui. Anche se siamo un piccolo resto. Le domande decisive per il futuro sono: chi è per noi Gesù Cristo? 

Crediamo noi e speriamo che il suo Spirito, dal vecchio ceppo di questa Chiesa, possa fare spuntare “il germoglio” messianico (cf. Is 11,1; 6,13) e possa trasformare un campo di ossa aride in un popolo nuovo, “di natura divina” (cf. Ez 37)? 

La nostra comunità è testimone del Vangelo dell’amore? 

Quanto vi sto dicendo non è alternativo all’impegno (per questo oggi ci siamo raccolti), ma afferma, anche nelle opere, il primato teologale della fede, della speranza e dell’amore. 

Veni, Sancte Spiritus! 

16.3. E allora io dico: Chiesa di Venezia, di che cosa abbiamo bisogno se non della Pentecoste? 

Noi dovremmo tutti invocare con fede lo Spirito Santo, lo Spirito di Gesù, che fa la Chiesa: fa i santi e fa i martiri, i testimoni, uomini e donne che siano “memoria di Gesù” secondo il Vangelo. Io prego il Signore perché ci aiuti a dar corpo a questa invocazione dello Spirito Santo nella nostra Chiesa: quando negli Atti degli Apostoli scende lo Spirito c’è sempre una “esplosione” di santità e di missionarietà. 

Affidiamoci a Maria 

16.4. Un’ultima cosa io voglio dirvi. 

Come sono profondamente convinto che il nostro cammino verso il grande Giubileo – da oggi al 2000 – debba compiersi nella grazia di una rinnovata Pentecoste, così credo sia conforme alla volontà del Padre che noi viviamo questa grazia “concordi fra di noi, con Maria” (cf. At 1,14). È anche l’insegnamento della Lettera apostolica: “Tertio Millennio Adveniente”. 

La presenza di Maria nei Vangeli – a Betlemme, a Cana, sotto la croce, nel cammino verso la Pentecoste – è normativa per la nostra fede. 

Io chiedo al Signore la grazia che la nostra Chiesa comprenda e accolga il piano divino: ancora una volta io prego il Signore perché ispiri me e voi circa il modo per dare corpo a questa consapevolezza di fede. 

Nella responsabilità di Vescovo che mi è propria intendo oggi, a conclusione di questo incontro, affidare questo triennio pastorale, fino al 2000, alla Santa Madre di Gesù, chiedendole di mantenerci nella docilità allo Spirito e di farci crescere in essa. E per questo vi invito a concludere il nostro incontro davanti alla Nicopeia, alla quale – spero anche con la vostra convinta solidarietà – io voglio affidare il nostro cammino pastorale verso il Giubileo del 2000, perché Maria ci faccia incontrare con Gesù. 

Preghiera di affidamento alla Santa Madre di Dio 

Santa Madre di Gesù, 
il Padre ti ha chiesto di dare un corpo al Verbo
affidando Gesù alle tue braccia e al tuo cuore:
noi adoriamo il suo mirabile disegno di salvezza. 
Tu hai accolto la Parola di Dio nella fede
e, docile alla guida dello Spirito,
nella sequela incondizionata del Vangelo,
hai restituito il Figlio al Padre,
offrendolo per noi sulla croce. 
Prostrati nell’obbedienza alla volontà che ti ha chiamata 
affidiamo a te noi stessi, la nostra Chiesa 
e il nostro impegno di fedeltà al Vangelo, 
in questo cammino verso il Grande Giubileo. 
E tu, Vergine Madre, 
invocando con noi lo Spirito della Pentecoste, 
ottienici di essere, 
tutti insieme, riconciliati nell’amore, 
veri discepoli di Gesù 
consacrati e mandati per la salvezza di tutti gli uomini: 
a gloria di Dio Padre. Amen.

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Stemma cardinale Marco Cè

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